La ’ndrangheta calabrese, e in particolare le cosche del quadrilatero Africo – San Luca – Platì - Ciminà nella provincia di Reggio Calabria e il gruppo Mancuso di Limbadi nella provincia di Vibo Valentia, hanno acquisito un ruolo di grande rilievo nel traffico internazionale di sostanze stupefacenti e, in modo particolare, della cocaina proveniente dal Sud America.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.
È un dato pacificamente condiviso nelle investigazioni giudiziarie degli ultimi 10 anni quello per cui la ‘ndrangheta calabrese, e in particolare le cosche del quadrilatero Africo – San Luca – Platì - Ciminà nella provincia di Reggio Calabria e il gruppo Mancuso di Limbadi nella provincia di Vibo Valentia, avrebbero acquisito un ruolo di grande rilievo nel traffico internazionale di sostanze stupefacenti e, in modo particolare, della cocaina proveniente dal Sud America.
Le strutture morfologiche di questo traffico e le modalità operative attraverso cui esso si incanala risultano invece meno evidenti all’analisi investigativa. La piena consapevolezza delle modalità con cui i gruppi calabresi si incaricano dell’approvvigionamento dello stupefacente, dello stoccaggio delle partite e del loro smercio sul mercato nazionale ed europeo ha ingenerato la convinzione che i clan siano pienamente operanti nel settore attraverso un consistente impegno di uomini delle ‘ndrine in tutti gli snodi dell’attività di transhipment della cocaina.
Una ricognizione più accurata delle indagini e un esatto profilo criminale dei soggetti identificati e tratti in arresto nel corso di diversi procedimenti penali, soprattutto quelli instaurati presso le Direzioni distrettuali antimafia di Reggio Calabria e Catanzaro, induce ad una diversa, e di certo non meno allarmante, conclusione.
Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 i capi delle ‘ndrine calabresi che avevano a disposizione remoti canali di contatto con i produttori e gli intermediari sudamericani hanno preso direttamente in mano il nuovo business compiendo un salto di qualità, per passare dal ruolo di tradizionale smercio di ingenti partite di droga (cocaina ed eroina in primo luogo) sui mercati del Centro e del Nord Italia, a quello del diretto approvvigionamento (anche per svariate tonnellate, come ha evidenziato l’operazione “Cartagine” dell’Arma dei Carabinieri in Piemonte) presso i produttori colombiani e boliviani.
Sviluppo criminale
Questa opzione ha segnato un passaggio epocale verso la “terziarizzazione” della ‘ndrangheta calabrese, che da utente finale o comunque operativamente marginale del narcotraffico, si è dislocata sulle rotte della cocaina assumendo impegni diretti con i cartelli dei produttori e diventando essa stessa in taluni casi (come ha dimostrato l’operazione “Decollo” dell’Arma dei Carabinieri con la Dda di Catanzaro) coproduttrice della pasta da coca nei laboratori siti presso le piantagioni del Sud America.
Questo salto di qualità è stato reso possibile dalla concomitanza di diversi fattori strategici. In primo luogo, agli inizi degli anni ’90, la scelta di Cosa nostra di condurre operazioni stragiste di intimidazione delle istituzioni repubblicane, ne ha notoriamente determinato l’isolamento, provocando una capillare attività di repressione da parte dello Stato che ne sta, ancora oggi, destrutturando le capacità operative e criminali.
A questo va aggiunto il diffondersi tra le file di Cosa nostra del fenomeno dei collaboratori di giustizia che ne ha incrinato la credibilità sia agli occhi delle altre organizzazioni criminali italiane che a quelli dei grandi cartelli del narcotraffico internazionale.
L’assenza di un “soggetto forte” del prestigio e del rilievo di Cosa nostra e il concomitante endemico collasso degli assetti camorristici in Campania, fatta eccezione dei clan Casalesi, ha fatto sì che le ‘ndrine calabresi operassero in posizione di sostanziale monopolio nell’approvvigionamento della cocaina.
E questo proprio negli anni in cui la cocaina conquistava spazi crescenti nel mercato dei consumatori italiani ed europei. L’intuizione dei gruppi attestati nella provincia di Reggio Calabria è stata quella di trarre ulteriore profitto da questa posizione di acquirenti privilegiati per contrattare con i narcos l’acquisto della droga direttamente nei luoghi di produzione, e quindi ad un prezzo relativamente modesto (tra i 1.200 e i 1.500 dollari al chilo), assumendosi il rischio del trasporto della merce direttamente dal Sud America.
Ciò da un lato ha offerto la possibilità di moltiplicare i profitti e dall’altro ha spinto le cosche calabresi a sperimentare una nuova logistica, capace di dischiudere ai gruppi di ’ndrangheta prospettive assolutamente innovative e inesplorate verso la modernizzazione dei traffici illegali.
Il secondo fattore strategico che ha di certo agevolato il disegno egemonico dei clan, è sicuramente rappresentato dalla loro capillare diffusione praticamente in tutti i continenti: dal Sud America all’Australia, dalla Germania alla Spagna, dalla Francia alla Svizzera al Canada. Da anni le ‘ndrine calabresi possono contare su gruppi di affiliati, spesso su veri e propri “locali”, capaci di fornire il supporto organizzativo che questa evoluzione su scala internazionale imponeva.
Analizzando la biografia criminale di alcuni dei principali artefici di questa nuova architettura mafiosa è possibile cogliere alcune costanti: comuni frequentazioni, co-detenzioni, parentele rivelatesi decisive per strutturare la logistica della droga in paesi altrimenti estranei.
I processi di globalizzazione, la caduta del muro di Berlino, l’allargamento dell’Unione europea, la nuova area di Schengen, sono stati colti dalle famiglie calabresi, per dare impulso a questa costruzione di rotte non solo del narcotraffico ma anche dei capitali illeciti.
Alleanze strategiche
Agevolando - a dispetto di ogni intenzione - proprio i gruppi di ’ndrangheta che più di altri potevano vantare alleanze e presenze nel nuovo scenario politico-economico. Ancora oggi destano sorpresa alcune intercettazioni telefoniche di circa 10 anni or sono nel corso delle quali uomini delle cosche di San Luca compongono numeri di telefono boliviani e peruviani e colloquiano in dialetto calabrese con i propri complici che risiedono da anni in quel continente.
Così come inquietano le immagini riprese dalla Polizia di Stato italiana e dalla Polizia canadese nelle quali si intravede un boss latitante della caratura di Antonio Commisso passeggiare tranquillamente tra una decina di compaesani e altri mafiosi tra le strade di Toronto. D’altronde, da Antonio Giampaolo catturato in Venezuela nel 2001 a Luigi Facchineri, catturato a Cannes nel 2002, a Santo Maesano catturato a Madrid nel 2003, per giungere sino all’operazione che ha determinato la cattura di sei latitanti tra il Belgio e l’Olanda nel 2006 è ormai evidente come le strutture della ’ndrangheta coinvolte anche nel narcotraffico si siano costantemente avvalse di una capillare rete transnazionale e internazionale per rafforzare la propria posizione di egemonia sulle altre organizzazioni criminali.
Un terzo fattore forse determinante che ha stabilmente contribuito ad accrescere l’operatività criminale delle ‘ndrine è sicuramente rappresentato dalla spendibilità nello scenario delle transazioni illegali nazionali e internazionali di una sorta di “logo”, un marchio di “qualità” e affidabilità indiscusso presso i partner e le altre organizzazioni allocate nella filiera del narcotraffico.
Le famiglie calabresi infatti sono tra i pochissimi soggetti criminali in grado di approvvigionarsi costantemente di cocaina presso i fornitori sudamericani, assicurando comunque il pagamento delle partite di stupefacente.
I risultati del procedimento penale denominato “Igres” della Dda di Reggio Calabria sono al riguardo particolarmente significativi nella parte in cui evidenziano il modo in cui gli uomini della ’ndrangheta calabrese, a differenza di elementi pur di primo piano di Cosa nostra palermitana, fossero abilitati al prelievo della cocaina a condizione di assoluto favore in Colombia e nella piena fiducia dei fornitori.
Gli stretti collegamenti con soggetti operanti nei Paesi produttori hanno agevolato la crescita della ‘ndrangheta sino a renderla punto di riferimento anche per le altre organizzazioni endogene. Indubbiamente l’attività di contrasto svolta dallo Stato in questi anni ha determinato assestamenti e svolte operative particolarmente significative da parte della ‘ndrangheta calabrese, che attualmente gestisce il narcotraffico della cocaina con modalità solo parzialmente coincidenti con quelle in uso nel decennio scorso.
I procedimenti penali celebrati in Calabria, in Piemonte e in Lombardia per tutti gli anni ’90 a carico di boss e gregari delle famiglie ‘ndranghetiste hanno determinato l’irrogazione di pesanti condanne, spesso molto più consistenti di quelle derivanti dalla celebrazione di processi per il delitto di associazione mafiosa. […] Ciò ha comportato un progressivo affievolimento del diretto impegno degli uomini di primo piano delle “locali” calabresi nel traffico internazionale di droga.
La cura del territorio, l’assistenza ai latitanti e ai detenuti, le estorsioni, gli appalti, il riciclaggio, i rapporti di infiltrazione nella politica e nelle istituzioni sono tutti settori illegali che – come si è dimostrato in altra parte della relazione – la ‘ndrangheta calabrese e reggina in particolare non poteva e non intendeva dismettere.
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