Altrettanto emblematico è il caso dell’autostrada A3 Salerno – Reggio Calabria, l’autostrada mulattiera, eterna incompiuta, simbolo materiale della permanenza nel Paese di una storica questione meridionale e della precarietà della condizione della Calabria.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.
Altrettanto emblematico è il caso dell’autostrada A3 Salerno – Reggio Calabria, l’autostrada mulattiera, eterna incompiuta, simbolo materiale della permanenza nel Paese di una storica questione meridionale e della precarietà della condizione della Calabria, eternamente malata, perennemente in “cura” ma costantemente incapace di guarire dai suoi mali strutturali.
L’autostrada, realizzata in meno di dieci anni, tra la metà degli anni sessanta e la metà degli anni settanta doveva unire il Mezzogiorno d’Italia al resto del Paese ed all’Europa, e rappresentare una sorta di via d’uscita dal sottosviluppo e dall’arretratezza.
Per questa sua funzione strategica, considerate le condizioni sociali delle aree interessate, la legge 729 aveva previsto anche l’esenzione dal pedaggio. La sua costruzione, sebbene portata a termine in tempi accettabili in relazione alla sua lunghezza – oltre 440 chilometri - fu segnata, fin dalle prime fasi, dalla presenza delle organizzazioni mafiose e dal loro intervento, che ne hanno accompagnato la storia infinita fino ai nostri giorni.
Come ebbe a sottolineare l’allora Questore di Reggio Calabria Santillo, già in quei primi anni ‘70, le imprese settentrionali vincitrici degli appalti si rivolgevano agli esponenti mafiosi prima ancora di aprire i cantieri: contraevano così una sorta di precontratto per garantirsi la sicurezza e affidare loro le guardianìe, per selezionare l’assunzione di personale e assegnare le forniture di calcestruzzo e le attività di movimento terra.
Negli anni l’autostrada, che era stata progettata con caratteristiche tecniche rispecchianti la classificazione delle strade dell’epoca, ha manifestato in modo sempre più evidente gravi limiti, inadeguata a sopportare i crescenti volumi di traffico e l’esplosione del trasporto su gomma.
Questi limiti, assieme all’aggiornamento della normativa sulle caratteristiche geometriche delle strade, sulle strutture in cemento armato, sulle aree sismiche, sulla stabilità dei pendii e sui parametri di sicurezza, hanno reso necessaria la sua riqualificazione.
Così, dal 1997, sono perennemente in corso lavori di ammodernamento ed ampliamento della struttura, sostenuti da finanziamenti pubblici nazionali ed europei interminabili, con continui incrementi delle previsioni di spesa e relativi aggiornamenti dei bandi di gara.
Le inchieste della magistratura
Un affare senza fine di cui non poteva non occuparsi oltre alla ‘ndrangheta anche la magistratura. La prima inchiesta, denominata “Tamburo” e coordinata dalla Dda. di Catanzaro, nel 2002 portava all’emissione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di 40 indagati, tra i quali imprenditori, capimafia, semplici picciotti e funzionari dell’Anas.
Con la stessa ordinanza venivano sequestrate diverse imprese attive nei lavori di movimento terra, nella fornitura di materiali edili e stradali e nel nolo a caldo di macchine. La seconda, più recente, denominata “Arca” e coordinata dalla Dda di Reggio Calabria ha portato all’emissione di ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di 15 indagati.
In questo caso, oltre al sequestro di diverse imprese impegnate nei subappalti, tra gli arrestati, assieme ai capimafia e ai titolari di imprese, compare anche un sindacalista della Fillea – Cgil. Da entrambe le inchieste emerge un vero e proprio sistema fondato sulla connivenza delle imprese e sulle collusioni e le inefficienze della pubblica amministrazione che, immutabile nel tempo, caratterizza in Calabria, ogni intervento pubblico finalizzato alla realizzazione di grandi opere infrastrutturali.
È opportuno precisare che si tratta di procedimenti in corso e che sui fatti che ne costituiscono oggetto non è stata ancora emessa sentenza definitiva ma, lungi dall’assumere i provvedimenti giudiziari come fonte di verità definitivamente sancita, la Commissione può e deve tuttavia utilizzarne i dati di maggiore interesse che rappresentano anche i più recenti elementi di conoscenza.
In ogni caso si tratta di elementi vagliati dall’autorità giudiziaria e, al di là dell’iter processuale, di fatti oggettivamente certi. Le due indagini hanno preso in considerazione i lavori di ammodernamento dell’autostrada riguardanti due distinte aree territoriali: l’inchiesta della Dda di Catanzaro ha analizzato i lavori ricadenti nel tratto Castrovillari – Rogliano in provincia di Cosenza, la seconda, della Dda di Reggio Calabria, i lavori ricadenti nel tratto Mileto – Gioia Tauro. Nell’uno e nell’altro, il meccanismo di controllo e sfruttamento realizzato dalle diverse organizzazioni mafiose è lo stesso.
Questa omogeneità di comportamenti è stata spiegata dal collaboratore Antonino Di Dieco, un commercialista che negli anni aveva assunto un ruolo di primo piano nelle cosche del cosentino ed era poi divenuto il rappresentante della famiglia Pesce nella provincia di Cosenza, il quale ha riferito come tutte le principali famiglie, i cui territori erano attraversati dall’arteria autostradale, avevano raggiunto tra loro un accordo per lo sfruttamento di quella che costituiva una vera miniera d’oro.
L’accordo prevedeva una sorta di predefinizione delle procedure applicabili ed una ripartizione su base territoriale delle zone di competenza con i relativi “pagamenti” secondo il seguente schema riferito dallo stesso Di Dieco:
le famiglie della sibaritide, con quelle di Cirò, per il tratto che andava da Mormanno a Tarsia;
le famiglie di Cosenza, per il tratto che andava da Tarsia sino a Falerna;
le famiglie di Lamezia (Iannazzo), per il tratto che andava da Falerna a Pizzo;
la famiglia Mancuso per il tratto che andava da Pizzo all’uscita Serre;
la famiglia Pesce per il tratto compreso tra la giurisdizione di Serre e Rosarno;
la famiglia Piromalli per il tratto rientrante nella giurisdizione di Gioia Tauro;
le famiglie Alvaro - Tripodi, Laurendi, Bertuca per il restante tratto che da Palmi scende verso Reggio Calabria.
La spartizione del territorio
Ricostruendo geograficamente le tratte si può quindi affermare che i lavori vanno avanti sotto uno stretto controllo mafioso. Ovviamente questo non è estraneo all’enorme ritardo accumulato dalle imprese per la realizzazione dell’opera moltiplicando i suoi costi. Si è così evidenziato una sorta di “pedaggio” istituzionalizzato, da casello a casello.
Questo è quanto avviene alla fine degli anni ’90. Vent’anni prima, invece, all’epoca della costruzione dell’arteria, il meccanismo denunciato dal Questore Santillo era il seguente: - la ‘ndrangheta imponeva senza grandi difficoltà alle grandi imprese affidatarie degli appalti – dagli atti processuali citati sono risultate coinvolte imprese quali la Asfalti Syntex SpA; la Astaldi Spa; l’Ati Vidoni – Schiavo; la Condotte SpA; la Impregilo SpA; la Baldassini & Tognozzi Spa - le funzioni di capo area o direttore dei lavori a soggetti graditi alle cosche, i quali si curavano di mediare le richieste mafiose e portarne l’esito a buon fine.
Ecco di cosa si trattava:
- pagamento di una percentuale del 3 per cento sull’importo complessivo dei lavori;
- assunzione di lavoratori in cambio del controllo sui loro comportamenti.
A riguardo risulta assai significativo che l’ordinanza di custodia cautelare abbia raggiunto tale Noè Vazzana, indagato per avere fatto parte dell’associazione mafiosa nella sua qualità di sindacalista, favorendo l’assunzione di lavoratori del luogo (legando così gli stessi all’associazione da un punto di vista clientelare in un’area ad altissimo indice di disoccupazione) e garantendo che sui cantieri di lavoro non vi fossero lotte o problemi sindacali; affidamento dei subappalti a proprie imprese o imprese da esse controllate, provvedendo all’emarginazione di quelle non disposte a rientrare nel quadro predefinito dalle cosche; -imposizione di forniture di materiali di qualità inferiore a quella prevista dai contratti a fronte di prezzi invariati.
Questo meccanismo, che si è ripetuto del tutto identico a distanza di anni, funzionava alla perfezione in primo luogo per la sostanziale adesione delle imprese appaltanti che, dopo avere trattato e dopo avere accolto le richieste estorsive, si davano da fare per farvi fronte ricorrendo al sistema delle sovrafatturazioni o consentendo l’apertura dei cantieri in subappalto prima ancora che questi fossero autorizzati dalla stazione appaltante principale.
Ma, ciò era possibile anche per la sostanziale assenza di controlli quando non per la connivenza, da parte degli organi ad essi preposti: in particolare il Responsabile Unico del procedimento ed il Direttore dei lavori, entrambi espressione della Stazione appaltante, in questo caso l’Anas, Ente Pubblico Economico (art. 1 dello Statuto D.P.R. 242 del 21/4/1995), che sarebbe stato obbligato al rigoroso rispetto della normativa in materia di lavori pubblici.
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