Capannoni industriali abbandonati e luccicanti centri commerciali, coste stuprate dall’abusivismo e dalla cementificazione selvaggia, campagne moderne e ordinatamente coltivate ed ettari di fondi abbandonati, rare isole produttive modernamente attrezzate e reperti di archeologia industriale, usurati dal tempo, testimoni di uno sviluppo promesso e mai arrivato.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulla relazione della Commissione parlamentare antimafia della XV° legislatura con presidente Francesco Forgione che per la prima volta ha dedicato un'inchiesta interamente sulla ndrangheta, tra le mafie più temute al mondo, per capirne la nascita, lo sviluppo e la struttura.
Percorrendo la Calabria dal Pollino allo Stretto, zigzagando tra le interruzioni dell’autostrada Salerno – Reggio Calabria e “gustando” i tempi lunghi imposti da lavori in corso infiniti, si può toccare con mano l’effetto del processo distorto di modernizzazione che negli ultimi trent’anni ha trasformato il paesaggio sociale e produttivo della regione.
Capannoni industriali abbandonati e luccicanti centri commerciali, coste stuprate dall’abusivismo e dalla cementificazione selvaggia, campagne moderne e ordinatamente coltivate ed ettari di fondi abbandonati, rare isole produttive modernamente attrezzate e reperti di archeologia industriale, usurati dal tempo, testimoni di uno sviluppo promesso e mai arrivato.
Nonostante l’impegno politico e finanziario profuso nei decenni - dalla Cassa per il Mezzogiorno a tutta la politica degli interventi straordinari - uno sviluppo armonico della realtà calabrese continua a rimanere una chimera, un obiettivo il cui conseguimento spesso si allontana di pari passo con l’avanzare di programmi e progetti di investimento, inesorabilmente frenati anche dalla presa che la ‘ndrangheta mantiene sull’intera economia della regione.
A fronte della fragilità e permeabilità dell’apparato politico amministrativo e della lentezza con cui procedono gli interventi volti ad una sua razionalizzazione e ad un miglioramento della sua efficienza, la ‘ndrangheta ha manifestato, al contrario, una rapida capacità di adeguarsi alle trasformazioni intervenute nel contesto economico e sociale.
Forte del suo atavico radicamento territoriale, mantenuto costante nel tempo, ed irrobustita da disponibilità finanziarie sempre maggiori, ha acquisito una sempre maggiore capacità di condizionamento ed inquinamento degli organi ed apparati amministrativi e politici calabresi.
Esempi emblematici rimangono i casi del porto di Gioia Tauro e dell’autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria, grandi, strategiche ed eternamente incompiute infrastrutture, su cui le cosche hanno esteso nel tempo i loro tentacoli sovrastando in alcune fasi il tentativo di contrasto, che pure negli anni ha ottenuto significativi risultati.
In entrambi i casi risulta essersi perpetuato il perverso paradigma in base al quale le infiltrazioni della ‘ndrangheta negli appalti e subappalti per la realizzazione delle grandi infrastrutture con quanto ne consegue in termini di dispersione delle risorse e di qualità delle realizzazioni sono state favorite nel corso dei decenni dagli accordi stretti, e spesso raggiunti in via preventiva, tra le grandi imprese nazionali e i capi delle più importanti famiglie mafiose dei territori interessati dai lavori.
Tali patti non si sarebbero potuti stringere in assenza di un sistema di connivenze con gli apparati politico amministrativi. Le indagini svolte e i diversi processi celebrati nell’ultimo decennio hanno messo a nudo un diffuso atteggiamento di pressoché totale assenza di collaborazione da parte degli imprenditori con le forze dell’ordine e la magistratura, oltreché una piena sudditanza alle varie pratiche estorsive: dal pagamento del pizzo, all’imposizione delle forniture e della manodopera, all’accettazione dell’estromissione da gare di appalto e lavori in favore di imprese riconducibili alle famiglie mafiose.
Su tale costume non ha inciso negli ultimi tempi neanche la posizione assunta da Confindustria Sicilia, che ha finalmente approvato un codice deontologico che prevede l’espulsione delle imprese che non denunciano la loro condizione di assoggettamento a Cosa nostra, né la presa di posizione dei vertici nazionali dell’organizzazione, che hanno invitato i loro iscritti a recidere i rapporti con le organizzazioni mafiose.
È significativa la circostanza, certamente non casuale, che proprio Confindustria di Reggio Calabria sia stata commissariata. Ma indagini e processi, come sottolineato dalla Direzione Nazionale Antimafia, hanno evidenziato anche il persistere di un grave problema di infiltrazioni e collusioni tra famiglie mafiose e pubbliche amministrazioni locali.
Così spiega il meccanismo un’ordinanza del gip di Catanzaro del 13/9/2006, emessa nei confronti di appartenenti al clan Mancuso: «La struttura in esame, inoltre, secondo quanto emerso dalle indagini, è riuscita ad infiltrarsi anche nel settore della pubblica amministrazione, pilota l’assegnazione di gare ed appalti pubblici e quindi beneficia, in modo diretto o indiretto, delle notevoli risorse finanziarie a tal fine stanziate. Dalle indagini è emerso dunque uno spaccato desolante delle attività economiche pubbliche o private svolte nel contesto territoriale sopraindicato: tutte le più significative ed importanti realtà produttive e commerciali appaiono dominate dal potere mafioso che annienta la libertà d’iniziativa economica privata, inquina la gestione della cosa pubblica, in una parola impedisce il reale sviluppo del territorio le cui risorse naturali, lungi dall’essere patrimonio della collettività, in realtà diventano strumento di arricchimento e consolidamento dei componenti del gruppo per cui si procede» ed ancora «I Mancuso erano soliti infiltrarsi ad ogni livello sia economico che politico operando unitamente alle famiglie Piromalli e Pesce sulla zona della Piana di Gioia Tauro. In particolare i Mancuso controllavano tutto il vibonese....».
Porto Franco
La Commissione Antimafia della XV Legislatura per la sua prima missione in Calabria ha scelto simbolicamente di cominciare il suo lavoro d’inchiesta nel porto di Gioia Tauro. Si sono svolte lì le prime audizioni. Gioia Tauro ed il suo porto rappresentano la metafora di un processo di modernizzazione senza sviluppo che ha segnato il corso della storia della Calabria da decenni.
È alla fine degli anni ’60, infatti, nel vivo di una straordinaria stagione politica e culturale che animò il dibattito meridionalista che ebbe proprio in Calabria importanti protagonisti, che si afferma la prima grande idea di programmazione degli interventi pubblici. Da allora tanto tempo è passato ma forse quella, al di là delle diverse opinioni, rimane l’ultima grande idea organica di sviluppo della Calabria.
Da quel momento sono cambiate le politiche di intervento verso il Sud al fine di accorciare il divario dal resto del Paese. Rimane però un dato: la Calabria si colloca agli ultimi posti in tutti gli indicatori di sviluppo, economici e sociali. Una storia di illusioni e disincanto che ha animato scontri politici e lotte sociali, dibattiti parlamentari e interessi materiali, grandi inchieste giornalistiche ed azioni giudiziarie.
Una storia complessa con tanti protagonisti e un convitato di pietra: la ‘ndrangheta. II porto, progettato negli anni ‘60 come porto industriale al servizio del mai realizzato V° Centro Siderurgico, venne inaugurato solo nel 1992 e la sua definitiva destinazione fu quella di terminal-hub per containers, sulla base di un progetto dell’imprenditore Angelo Ravano, legale rappresentante della multinazionale Contship Italia, che mirava a farne il principale scalo di transhipment di containers del Mediterraneo.
Il progetto fu condiviso dal Governo dell’epoca, che siglò con il Ravano un apposito “Protocollo di Intesa”. Ed in effetti l'attività avviata dalla Contship e dalla sua filiazione Medcenter Containers Terminal (MCT) si è sviluppata a ritmo elevato, fino a far assumere allo scalo, nel 1995, il ruolo leader nel settore del transhipment nell’area mediterranea.
Le indagini condotte tra il 1996 ed il 1998 dalla Squadra Mobile e dalla Dia di Reggio Calabria, confluite nel processo denominato “Porto”, e conclusosi con la condanna di numerosi imputati, dimostrano come l’interesse e la volontà della ‘ndrangheta di mettere le mani sulla straordinaria occasione di arricchimento costituita dal Porto si fossero manifestate ancor prima che il concessionario iniziasse la sua attività.
Contestualmente, già nella fase ideativa del progetto, si era manifestata la subalternità alla ’ndrangheta della Contship Italia e del suo leader e fondatore Angelo Ravano, con l’obiettivo di realizzare senza ostacoli ed interferenze il suo progetto imprenditoriale.
Ravano mostrava così di considerare l’organizzazione mafiosa non un nemico della libera iniziativa economica, da contrastare e denunciare, ma un interlocutore affidabile e necessario a tutela e garanzia della realizzazione del proprio progetto imprenditoriale.
Il processo, conclusosi nel 2000, ha dimostrato che la realizzazione del più importante investimento di politica-industriale mai pensato per il Sud, era stato preceduto da un preventivo accordo tra la multinazionale diretta dall’imprenditore Angelo Ravano e le cosche Piromalli – Molè di Gioia Tauro e Bellocco – Pesce di Rosarno, allora come oggi dominanti nella Piana di Gioia Tauro, unite in un unico cartello e unitariamente rappresentate nelle trattative dal boss Piromalli.
La circostanza, peraltro, non può suscitare meraviglia, poiché da numerose indagini è emerso come le cosche del reggino, a differenza di quelle radicate in altre realtà territoriali, dopo la fine della guerra fratricida, agli inizi degli anni novanta, avevano dato vita ad una sorta di rete federale ai cui vertici sedevano i capi delle maggiori famiglie, con l’obiettivo di gestire e ripartire tra loro gli affari e dirimere eventuali controversie.
L’accordo prevedeva il pagamento di una sorta di “tassa” fissa di un dollaro e mezzo su ogni container trattato in cambio della “sicurezza” complessiva dell’area portuale. La cifra potrebbe apparire irrisoria ma va rapportata al numero complessivo di containers trattati annualmente, quasi 3 milioni oggi e circa 60mila all’epoca, per capire quanto essa rappresenti un’enorme fonte di liquidità.
Per gestire l’affare miliardario dell’estorsione alla Contship, secondo i giudici del Tribunale di Palmi, le cosche della Piana, sia le più importanti che le minori, si erano federate in una sorta di “supercosca”. Il progetto non riguardava solo il pagamento della “tassa sulla sicurezza”, crescente proporzionalmente allo sviluppo delle attività delle società portuale, ma anche quello di ottenere il controllo delle attività legate al porto, dell’assunzione della manodopera e i rapporti con i rappresentanti dei sindacati e delle istituzioni locali.
La ‘ndrangheta, quindi, coglieva l’occasione che le consentiva di uscire dalla sua condizione di arretratezza per divenire protagonista dinamico della “modernizzazione” della Calabria. Il progetto, nonostante l’azione della magistratura, è stato in parte realizzato: esso ha portato, infatti, al sostanziale dissolvimento di qualunque legittima concorrenza da parte di imprese non mafiose o non soggette alla mafia, estromesse dai lavori, dalle forniture, dai servizi e dalle assunzioni di manodopera ed ha introdotto elementi di scarsa trasparenza nei comportamenti di enti ed istituzioni locali.
Tra questi enti spicca il Consorzio per lo Sviluppo dell’Area Industriale che, nei primi anni, era l’unico organo competente in materia di approvazione di progetti, assegnazione di aree, spesa dei finanziamenti etc.
Negli anni a seguire a ciò si sono aggiunti sia la confusione di poteri e competenze tra il Consorzio e la costituita Autorità portuale sia i conseguenti conflitti tra i due Enti aggravati dall’assenza di controlli e di coordinamento da parte della regione e degli altri enti locali.
Dagli elementi raccolti da questa Commissione i problemi evidenziati sono ancora oggi irrisolti. Perdura il controllo diretto o indiretto da parte della ‘ndrangheta su buona parte delle attività economiche riconducibili all’area interessata e la capacità delle cosche di utilizzare le strutture portuali per traffici illeciti, e anche leciti, di varia natura.
Permangono ugualmente scelte e comportamenti di poca trasparenza degli enti titolari di competenze sull’area portuale e sull’adiacente area di sviluppo industriale.
Tale situazione, se non vi si pone rimedio, è inevitabilmente destinata ad aggravarsi in relazione agli ingenti investimenti che nei prossimi anni interesseranno l’intera area di Gioia Tauro e lo sviluppo dello Scalo: - costruzione dell’impianto per la rigassificazione del gas naturale liquefatto, cui si accompagnerebbe la cosiddetta “piastra del freddo”, con l’insediamento di aziende manifatturiere e logistiche legate all’utilizzo del freddo, sottoprodotto dell’impianto principale; - piattaforma logistica intermodale, destinata a sfruttare le grandi aree disponibili per l’allestimento di molteplici servizi collegati allo scalo merci, che verrebbe collegato a differenziate reti di trasporto; - hub automobilistico, destinato ad accogliere i veicoli esportati in Europa dalle industrie dell’Estremo Oriente, con relativo adeguamento di tutte le strutture oggi esistenti.
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