A Elda Pucci resterà impressa la battuta con cui don Vito annuncia, insieme, il suo addio al partito e la scelta di restare comunque sulla scena: «Non mi posso dimettere dagli amici né da amico». È un modo beffardo per rifare il verso a una celebre formula che rappresenta il mafioso come «l’amico degli amici», ma la parte più interessante è quell’accenno all’impossibilità di separarsi dagli «amici».
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
Un mese prima dell’elezione di Insalaco, l’11 marzo, Raiuno manda in onda la prima delle sei puntate della Piovra. Il successo è clamoroso: otto milioni di spettatori si incollano al video per la puntata d’esordio; diventeranno quindici milioni per l’ultima. Ambientata a Trapani (mai nominata ufficialmente), la serie ricostruisce le disavventure dell’onesto commissario Corrado Cattani in un mondo dove mafia e droga non sono solo un affare di padrini con la coppola, ma il segreto di una città marcia.
La piovra segna l’epifania della mafia nella mente dell’italiano medio. C’è voluta la morte del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa per far vibrare di indignazione l’Italia. Fino a quel 3 settembre del 1982, quando il generale prefetto è stato assassinato con la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo, lo scontro tra la mafia e i suoi avversari somigliava a una guerra civile a bassa intensità: siciliani gli assassini, siciliane le vittime.
Con l’uccisione del piemontese Dalla Chiesa, tutto è cambiato: quando ha visto cadere l’eroe della guerra al terrorismo, l’Italia intera si è ribellata, e ha preteso che lo Stato reagisse. Anche la Rai si è svegliata da un lungo sonno.
A Palermo, per il debutto della Piovra, viene organizzata una visione d’élite nell’elegante sede invernale del circolo Roggero di Lauria. Segue dibattito con gli ospiti in studio. Tra gli invitati c’è un celebre penalista, l’avvocato Ottavio Seminara.
Gli domandano di viale Lazio, la strage del 1969 che segnò il debutto delle pistole corleonesi a Palermo. «Viale Lazio?» si interroga Seminara, come posto di fronte a un astruso quesito di toponomastica. E non risponde. Insalaco è il terzo sindaco in quattro anni, il primo che di mestiere fa il politico. Lo ha preceduto l’avvocato Martellucci, l’uomo che Stefano Bontate ammirava e Totò Riina detestava.
Compunto e compito, dopo l’assassinio del generale Dalla Chiesa, ha dichiarato in tutta serietà che il Comune non ha il dovere istituzionale di combattere la mafia. Travolto dalle polemiche, ha dovuto andarsene. Dopo di lui, è stata eletta una pediatra, Elda Pucci.
Le elezioni...
La prima donna sindaco di una grande città. Nell’inventare novità, la Dc palermitana ha del genio. La scelgono perché la ritengono un’ingenua, un’Amélie della politica. Sbagliano i conti perché la pediatra Pucci, fanfaniana legatissima a Giovanni Gioia e convinta che quel ministro, accusato di aver traghettato la mafia nella Dc, sia stato vittima di una persecuzione, è una persona perbene.
Tanto da denunciare alla Procura della Repubblica, senza chiedere il permesso a nessuno, lo scandalo di una scuola privata che ha saccheggiato le casse comunali. È uno sgarro che non le viene perdonato. Nel giudicare «sbirro» chiunque si rivolga alla magistratura, i padroni della politica e i padrini della mafia sono identici. Li accomuna quel che si chiama un idem sentire. Ma Elda Pucci ha fatto di peggio. Ha pensato – e dichiarato ai quattro venti – che bisognava applicare la legge per rinnovare i grandi appalti, e bandire pubbliche gare.
Questa è appunto la questione per eccellenza, il piano inclinato su cui sono destinate a rotolare le teste dei sindaci: il rinnovo degli appalti per l’illuminazione e, soprattutto, per la manutenzione di strade e fogne. Sono i più grandi affari della città; da soli, valgono la metà del bilancio comunale. L’appalto per la luce è scaduto nel giugno 1980, quello per strade e fogne nel dicembre 1983. Si va avanti di proroga in proroga, ma è un regime che non può durare. Facciamo un po’ di conti.
A Palermo si spendono per l’illuminazione pubblica dodici miliardi l’anno. A Roma tredici. A Torino dieci. Per strade e fogne, cinquantotto miliardi a Palermo, trentuno a Roma e a Torino ventiquattro. Il sostituto procuratore della Repubblica Paolo Giudici calcolerà che, in quattordici anni, Lesca e Icem hanno incassato 1.070 miliardi di lire. Un’enormità.
I diabolici meccanismi di revisione prezzi escogitati da Vito Ciancimino nella sua breve stagione da sindaco regalano agli appaltatori profitti record. Non c’è da sorprendersi se quei signori sono disposti a tutto pur di tenersi il malloppo. Anzi, pretendono che il comune serva a Lesca e Icem gli appalti su un piatto d’argento, assegnandoli con il metodo della trattativa privata, ovvero senza nessuna concorrenza, senza gara. C’è un piccolo, modesto ostacolo: la legge.
Lo dichiara candidamente Elda Pucci: la legge vieta di ricorrere alla trattativa privata per importi così elevati. Bisogna bandire una gara pubblica, chiamare le imprese a concorrere, scegliere l’offerta migliore. È una banalità che passa per rivoluzionaria. E al sindaco pediatra basta annunciare quel proposito per essere fatta fuori. Con un pretesto, naturalmente.
...e le dimissioni
In virtuosa triangolazione con gli intrighi di palazzo, la Procura della Repubblica fornisce lo spunto per le dimissioni di un assessore, inviando al socialdemocratico Giacomo Murana una comunicazione giudiziaria per un’inchiesta vecchia di otto anni. Il suo partito rifiuta di sostituirlo; a quel punto la maggioranza dichiara che la giunta Pucci deve essere mandata a casa. Ricomincia così la caccia al sindaco. Con la preoccupazione di scovarne uno più addomesticabile dell’inflessibile pediatra.
Tutti sanno che, dietro i giochi di potere sui grandi appalti, c’è Vito Ciancimino. Su ottanta consiglieri comunali – rivelerà Insalaco – don Vito ne controlla almeno venti, e non solo democristiani, dato che ha avuto cura di arruolare suoi fedelissimi in quasi tutti i partiti della maggioranza.
È la stessa tecnica che i corleonesi hanno adottato per sbaragliare gli avversari: avere almeno un infiltrato in ogni famiglia di mafia. Come per sfilarsi dai giochi, un attimo dopo che il sindaco pediatra ha annunciato le dimissioni, Ciancimino fa sapere di non avere più la tessera della Dc.
A Elda Pucci resterà impressa la battuta con cui don Vito annuncia, insieme, il suo addio al partito e la scelta di restare comunque sulla scena: «Non mi posso dimettere dagli amici né da amico». È un modo beffardo per rifare il verso a una celebre formula che rappresenta il mafioso come «l’amico degli amici», ma la parte più interessante è quell’accenno all’impossibilità di separarsi dagli «amici».
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