Il giorno dopo l’audizione dei sindaci, giovedì 4 ottobre, la Repubblica stampa in prima pagina la foto di Insalaco, con la fascia da sindaco addosso, e il titolo: «Ciancimino Lima Gioia. “Ecco chi sono i padrini della Dc siciliana”. Svelati i torbidi affari di Palermo». Rientrato a Palermo, Insalaco trova nella buca delle lettere una lettera anonima.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
Il 29 settembre 1984 Palermo si sveglia in un infuriare di sirene. Centinaia e centinaia di mafiosi vengono arrestati, inviati nelle carceri di massima sicurezza di tutta Italia. È il frutto delle confessioni di Buscetta: la più grande retata che l’Antimafia ricordi. Un’operazione militare imponente. I mandati di cattura sono 366.
A Vito Ciancimino viene notificata una comunicazione giudiziaria: è poco, ma è qualcosa. Quattro giorni dopo, il 3 ottobre, gli ultimi tre sindaci della città si presentano alla Commissione parlamentare antimafia. Dei tre, il più famoso è Giuseppe Insalaco. A Roma, sulle scale di Palazzo San Macuto, i fotografi lo abbagliano con i flash. Quel mattino d’ottobre la Repubblica arriva in edicola con un inserto di otto pagine: il testo del mandato di cattura contro i mafiosi. È, né più né meno, che il lungo racconto di Buscetta.
A Palermo, per prepararsi all’audizione, Insalaco si è consultato a lungo con un dirigente comunista, Michele Figurelli. Paziente e tenace come un coach, Figurelli ha discusso con quel democristiano, che ai democristiani comincia a sembrare un traditore, i possibili temi dell’audizione.
Figurelli ricorda con divertimento quegli incontri: «Ogni tanto si impuntava, mi interrompeva, protestava: questo non posso dirlo, sono un democristiano io! Era un uomo furbo, ambizioso. Conosceva i sotterranei del potere. A Cattedra, direttore de L’Ora, svelava i retroscena della politica. E anche ai consiglieri del gruppo comunista dava suggerimenti, spiegava che cosa andava muovendosi nel gioco delle correnti democristiane.
Così ci consentiva di anticipare le mosse degli avversari, di studiare per tempo le contromisure. Da sindaco, credo che avesse maturato con velocità accelerata una consapevolezza diversa del potere a Palermo». Prima di partire per Roma, Insalaco ha ricevuto una lettera anonima, l’ennesima.
L’audizione in Commissione Antimafia
Il testo somiglia a un telegramma: Gli amici di Dalla Chiesa, De Francesco e Falcone fanno la fine che meritano. Il prefetto Emanuele De Francesco è il successore di Dalla Chiesa, il capo dell’Alto commissariato antimafia. Insediandosi a Palermo, non ha rinunciato al suo precedente incarico: direttore del Sisde. Con naturalezza ha deciso di continuare a essere, insieme, il capo delle spie e il capo dell’Antimafia. Dei tre personaggi evocati per minacciare Insalaco, è l’unico che morirà di morte naturale. L’audizione di Insalaco all’Antimafia dura tre ore e mezzo. Basta rileggerla per capire la minaccia rappresentata dall’ex sindaco.
Dei tre convocati, è il più esplicito. Usa parole dure, dirette. Dice che, in Comune, «la mafia la si respira». Spiega che quella mafia pilota «svolte politiche e amministrative». Fa nomi e cognomi di politici, di alti burocrati, racconta che un funzionario del Municipio si presentò festante al portone del carcere dell’Ucciardone per stringere la mano al costruttore mafioso Rosario Spatola che veniva scarcerato.
Descrive i suoi incontri con Vito Ciancimino. Spiega come quell’uomo tenga in scacco il Consiglio comunale, manovrando una forza d’urto di venti consiglieri. Parla di Cassina, del suo «grandioso peso», delle sue conoscenze, del suo potere. Si definisce «orgoglioso di essere democristiano» ma dà del suo partito un’immagine avvilente, lo descrive impantanato in un rinnovamento che è una formula vuota.
Gli capita di rispondere con circospezione a qualche domanda, su alcuni temi appare fumoso e reticente, ma rispetto al modello del democristiano che viene da Palermo è fin troppo esplicito – tanto da impressionare un parlamentare di Democrazia proletaria, sigla ormai scomparsa dell’estrema sinistra, Guido Pollice, e da apparire un esempio di lealtà e chiarezza al senatore socialista Domenico Segreto. A paragone con Insalaco, Nello Martellucci sembra il testimonial dell’omertà.
L’anziano avvocato, che è stato appena rieletto sindaco in un disperato, fallimentare tentativo di impedire lo scioglimento del Consiglio comunale, è compito e sfuggente. Premette: «Non conosco la mafia perché mai ho avuto con essa alcun rapporto». Scivola come un’anguilla. I parlamentari della commissione gli chiedono dei costruttori mafiosi, gli fanno i nomi di Rosario Spatola e Francesco Bonura, l’uno e l’altro finiti agli arresti, gli domandano se abbiano mai ottenuto appalti pubblici. Martellucci vacilla, tenta di schivare la domanda, ostenta una specie di schizzinosa superiorità: come può un sindaco conoscere queste minuzie? I commissari dell’Antimafia insistono.
Il sindaco prende tempo: «Appalti? Spatola? Ritengo di no». Ed era uno dei maggiori appaltatori del Comune, l’unico che riuscisse a farsi saldare le fatture anche quando l’amministrazione era a corto di quattrini. Gli domandano di Ciancimino. Martellucci si affretta a spiegare che Ciancimino ha dichiarato pubblicamente di aver rinunciato a parlargli, giudicandolo un uomo di malocarattere. Esorta i commissari: «Bisogna ricordare questo giudizio».
Come a suggerire: non gli piacevo, come pensate che possa avere avuto a che farci? Trent’anni dopo è difficile perfino immaginare la compatta ipocrisia che faceva ammutolire legioni di politici e amministratori quando si parlava di mafia. Le cautele. I silenzi. I distinguo.
Così l’esercizio migliore, per capire quanto c’era di straordinario – forse perfino di rivoluzionario – nell’audizione di Insalaco, consiste nel metterla a confronto con quelle dei capigruppo del pentapartito, anche loro convocati a Palazzo San Macuto, il 12 ottobre. C’è un prudentissimo repubblicano, Luigi Aricò, talmente evasivo che un parlamentare spazientito gli domanda: ma la mafia esiste? E lui, accomodante: «Sì, ritengo che esista».
C’è il liberale Benedetto Cottone, che esordisce scusandosi di essere poco informato sulle vicende di Palermo perché da trent’anni vive a Roma, benché a Palermo continui a farsi eleggere, e prosegue dicendo che conosce la letteratura sulla mafia, ma la mafia – direttamente – no. C’è il capogruppo del partito socialista, Giuseppe Albanese: la mafia in Municipio? Se sapessimo, denunceremmo. La paralisi? Colpa della Dc che non governa. Ciancimino? Si sapeva che aveva una sua corrente; ora non ce l’ha più. C’è il capogruppo democristiano, Toni Curatola. Ciancimino? So chi è, ma non ho mai avuto a che fare con lui. I sindaci caduti sugli appalti? Sciocchezze, invenzioni malevole dei giornali: gli appalti non c’entrano, Martellucci ha pagato «un difetto di collegialità»; la Pucci si è dimessa perché i socialdemocratici non avevano rimpiazzato un assessore; Insalaco perché aveva guai giudiziari.
È tutto un evitare, un minimizzare, un farsi piccoli, un ignorare. La mafia a Palermo? Sì, ma c’è anche in altre città, controlla interi gruppi economici. L’assassinio di Piersanti Mattarella? L’omicidio La Torre? Terribili eventi, certo, ma se sapessimo qualcosa, lo diremmo. Il costruttore Vassallo che era un boss e affittava scuole al Comune, infilandole nei sottoscala dei suoi palazzi? Che nome ha fatto: Vassallo? Dove: al Comune? No, forse alla Provincia; al Comune sicuramente no.
La commedia dell’ipocrisia
Anche i parlamentari dell’Antimafia fanno la loro parte in questa commedia dell’ipocrisia. Si alza il senatore democristiano Claudio Vitalone e domanda come sia stato possibile che un «fenomeno Ciancimino» abbia potuto consolidarsi senza che scattasse alcun intervento istituzionale. E nessuno, nella solenne, austera aula di Palazzo San Macuto, ha il coraggio di ricordargli che quel fenomeno di Ciancimino si era accampato nella stessa corrente in cui milita Vitalone, nell’abbraccio protettivo di Giulio Andreotti – e negli anni in cui Andreotti era presidente del Consiglio, ai vertici delle istituzioni.
Il giorno dopo l’audizione dei sindaci, giovedì 4 ottobre, la Repubblica stampa in prima pagina la foto di Insalaco, con la fascia da sindaco addosso, e il titolo: «Ciancimino Lima Gioia. “Ecco chi sono i padrini della Dc siciliana”. Svelati i torbidi affari di Palermo». Rientrato a Palermo, Insalaco trova nella buca delle lettere una lettera anonima. Gli annuncia che farà la fine di Michele Reina: morto ammazzato.
Da quel momento cominciano a piovere agli indirizzi più disparati, dalla procura della Repubblica all’Alto commissariato antimafia, dalla Guardia di Finanza alla presidenza della Commissione regionale antimafia, una sfilza di anonimi in cui si denunciano presunte malefatte dell’ex sindaco e si spiega come il presunto moralizzatore sia un corrotto. Ho anch’io una di queste lettere.
Era indirizzata al giornale L’Ora, oltre che a una serie di altri destinatari, prima fra tutti la Procura della Repubblica. Il direttore, Nicola Cattedra, deve aver conservato la lettera nel suo archivio; la moglie, Marilena, me l’ha regalata quando le ho detto che stavo lavorando a questa storia. Sono due paginette scritte a macchina, con errori forse intenzionali, seminati ad arte in un testo che si apre con un impeccabile congiuntivo («È una vergogna che Giuseppe Insalaco si sieda al posto del povero Saro Nicoletti»).
Le accuse sono scontate: acquisti di ville e appartamenti, tangenti da commercianti e costruttori, una frecciata su Ciancimino («Insalaco è diventato sindaco per volontà anche di Ciancimino che assicurò i voti»). La chiusa è contorta: «State attenti all’onorevole trasparentemente corrotto, correte dietro di lui e non lo lasciate solo, così non si trova la sua auto rubata sotto la casa di Falcone, bruciacchiata, pochli (sic) metri dopo e senza scasso». La formula «trasparentemente corrotto» è affascinante nella sua ricercatezza.
La macchina bruciata
La macchina bruciata di cui parla l’anonimo segna l’ultima stagione di notorietà di Insalaco come paladino antimafia. Il 16 ottobre l’ex sindaco è in partenza per Roma. La redazione di Tg2 Dossier lo ha invitato per un’intervista, insieme con il presidente della commissione antimafia Abdon Alinovi. Quel mattino la macchina di Insalaco viene rubata e data alle fiamme.
Potrebbe essere un atto di intimidazione qualunque, in una città inquieta e violenta come Palermo, se non fosse che la macchina è parcheggiata davanti alla garitta blindata occupata dagli uomini che vigilano sulla sicurezza di Giovanni Falcone. Alle domande dei cronisti, Insalaco risponde come se fosse confuso, incerto: «A Palermo non si riesce a capire più nulla. È difficile anche fare politica, tutto è diventato talmente complicato che viene voglia di mollare ogni cosa e andare via».
I giornalisti gli domandano se non abbia paura. Risponde: «Sono profondamente turbato, non impaurito. Anche perché credo di non aver usato cattiveria contro alcuno. Ho fatto un discorso politico di rinnovamento, spinto a fondo d’accordo, ma sempre circoscritto in un ambito rigorosamente politico». Quell’insistere sulla politica è un segnale? È un modo per difendersi dal sospetto di aver affidato alla magistratura la propria vendetta? Tre giorni dopo, alla prefettura di Palermo viene recapitata una lettera.
Anonima, ovviamente: «Signor Prefetto, ho saputo da fonti attendibili che il dr. Insalaco è stato condannato a morte. Mi creda, non è uno scherzo; predisponga per lui una scorta vera e non un palliativo come quello attuale». Difficile credere che l’autore fosse preoccupato dell’incolumità dell’ex sindaco. L’obiettivo sembra piuttosto fargli sapere che possono ammazzarlo facilmente, che la sua protezione è uno scudo di carta. Terrorizzarlo.Per ogni passo che Insalaco fa, per ogni testimonianza che rende, un anonimo provvede a segnalare alla magistratura che l’accusatore è un mascalzone. Va avanti così per mesi. Il 6 novembre, convocato a Palazzo di Giustizia, Insalaco parla di Ciancimino e di Cassina, descrive «un miscuglio tra mafia e altri interessi occulti che rende la città realmente ingovernabile». Tre settimane dopo, un anonimo telefona alla cancelleria dell’Ufficio istruzione: suggerisce di invitare il giudice Falcone a indagare sui rapporti tra Insalaco e i fratelli Greco.
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