Ha annotato Arrigo Levi, un giornalista estraneo ai sensazionalismi, a proposito della scelta di insediare in Sicilia la base per gli euromissili: «Non credo siano molti gli italiani consapevoli del fatto che quella nostra decisione [...] contribuì in modo straordinario, forse perfino decisivo, alla caduta dell’impero sovietico e alla fine del comunismo»
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
Qualcosa di straordinario, in quel fatale anno 1979, sta davvero per succedere in Sicilia. Per capirlo, bisogna andare a 7.596 chilometri da Palermo: in una piccola isola delle Antille, Guadalupa. Lì, il 5 e il 6 gennaio 1979, si riuniscono le grandi potenze d’Occidente. Al summit partecipano il presidente Usa, Jimmy Carter, il premier inglese James Callaghan, il presidente della Repubblica francese, Valéry Giscard d’Estaing e il cancelliere della Repubblica Federale Tedesca, Helmut Schmidt. L’Italia manca: non è stata invitata. Ufficialmente il vertice è stato convocato per discutere di economia. In realtà si parla di tutt’altro. Di missili.
La ragione vera dell’incontro è che la Nato è allarmata dallo squilibrio di forze con l’Urss sul teatro europeo. Già dal 1977 i servizi segreti occidentali hanno segnalato che Mosca sta schierando sul suolo sovietico missili SS20 a testata nucleare, capaci di raggiungere qualunque bersaglio nell’Europa occidentale. Le analisi dell’intelligence convergono nell’indicare quei missili come un cuneo destinato a dividere l’Europa dagli Usa.
Per riequilibrare i rapporti di forza, la Nato vuole schierare in risposta una nuova generazione di missili: il punto è decidere quale paese dovrà accoglierli. Il cancelliere Schmidt chiede che la Germania non sia la sola nazione europea a ospitare le basi missilistiche; teme rappresaglie; ha paura che Mosca piloti eventuali azioni terroristiche, come del resto suggeriscono i servizi occidentali.
Ma se la Germania non li vuole, chi si prende gli euromissili? Quella riunione nell’esotico scenario di un’isola dei Caraibi è il primo atto della trasformazione della Sicilia nella sede della base militare nucleare più grande d’Europa. Bisognerà aspettare il novembre 1979 perché il presidente del Consiglio, Francesco Cossiga, dichiari ufficialmente che l’Italia ha accettato di installare i missili – gli euromissili – sul proprio territorio e addirittura l’agosto 1981 perché il governo della Repubblica italiana – il primo nel dopoguerra guidato da un non democristiano – spieghi che il luogo scelto per ospitare la base è Comiso, nella Sicilia sudorientale. Ma la scelta è stata fatta molto tempo prima.
E a rivelarlo è il diplomatico che l’Italia designò a rappresentarla nel «gruppo di esperti ad alto livello» che doveva elaborare il programma degli euromissili. Quest’uomo, Antonio Ciarrapico, ha pubblicato nel 2012, in un saggio dal titolo suggestivo, Le ombre della storia, una ricostruzione della vicenda euromissili che merita di essere letta con attenzione.
Nel luglio del 2013 la rivista Affari esteri ha ristampato quella ricostruzione con un titolo ancora più accattivante: La storia poco conosciuta degli euromissili. Con l’accuratezza del testimone e la disinvoltura di chi si sente ormai svincolato dall’obbligo di segretezza sugli eventi cui ha partecipato, Ciarrapico spiega come la scelta di puntare sulla Sicilia gli venne anticipata dagli americani nei primi mesi del 1979.
E indica la data e il luogo in cui venne informato delle preferenze Usa. Seguiamo il racconto dell’ambasciatore Ciarrapico. La data: mercoledì 28 febbraio e giovedì 1 marzo 1979. In quelle quarantott’ore, a Colorado Springs, contea di El Paso, nello stato americano del Colorado, l’Hlg (High Level Group), il gruppo degli esperti che da due anni si incontrano periodicamente, si riunisce per continuare a discutere degli euromissili.
La base americana a Sigonella
Prima di partire per gli Usa, l’ambasciatore Ciarrapico, che è profondamente convinto della necessità che l’Italia si candidi a ospitare la nuova base ma conosce le perplessità dello stato maggiore della Difesa, ha consultato il governo.
Non ha parlato con il presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, ma con due ministri di primo piano, entrambi democristiani. Uno è il responsabile degli Esteri, Arnaldo Forlani.
L’altro è un mantovano eletto nella Sicilia Occidentale, il ministro della Difesa Attilio Ruffini, nipote di un famoso cardinale di Palermo, Ernesto Ruffini, celebre per aver definito la mafia un’invenzione dei comunisti. A sorpresa, nei suoi colloqui riservati, l’ambasciatore ha ottenuto dai due ministri un cautissimo, segreto benestare.
Senza consegnargli nulla di scritto, Forlani e Ruffini hanno autorizzato Ciarrapico a far trapelare nella riunione di Colorado Springs l’interesse italiano a intestarsi la titolarità della nuova base. Con le cautele del caso, l’ambasciatore lo accenna al vicesegretario alla Difesa americano David E. McGiffert. Bostoniano e democratico, McGiffert ha un curriculum di tutto rispetto. Il suo primo incarico nell’amministrazione Usa risale al 1962. Ha lavorato con il presidente John Kennedy e con il suo successore, Lyndon Johnson.
Dalla plancia di comando del Pentagono, nel 1968 ha fronteggiato in patria le proteste pacifiste contro la guerra in Vietnam. Quando il neopresidente Carter lo richiama in servizio, ha una robusta conoscenza della macchina militare Usa.
Ciarrapico racconta che il negoziatore americano, appena informato delle cautissime avances italiane, lo prende in disparte per parlargli con maggior franchezza: «A titolo di anticipazione aggiunse che, nelle prospettive del Pentagono, si escludeva di utilizzare una base nel Veneto, come forse ci si attendeva da parte italiana, e si pensava alla possibilità di schierare un certo numero di missili di crociera basati a terra in Sicilia, preferibilmente a Sigonella, ove gli Stati Uniti erano già presenti ed ove esistevano già delle infrastrutture aeroportuali adeguate». Dunque, il disegno del Pentagono era chiarissimo – e bell’e pronto.
È bastato che da parte italiana si manifestasse un barlume di disponibilità perché gli americani svelassero un piano già definito, che riguardava la Sicilia. «Preferibilmente», Sigonella. Sarà Comiso, invece, a settanta chilometri di distanza. Nel pieno della guerra fredda, con la decisione di puntare sull’isola per installare i missili che, nelle intenzioni dell’Alleanza atlantica, dovranno riequilibrare il rapporto Est-Ovest sul fronte delle armi di teatro, la Sicilia torna a essere decisiva sullo scenario geostrategico mondiale.
È un ruolo che l’isola non riveste dai giorni dello sbarco alleato, nel luglio 1943, nel pieno della Seconda guerra mondiale. Nella valutazione dell’ambasciatore Ciarrapico, quella scelta «avrebbe indotto qualche anno più tardi il governo sovietico [...] ad accogliere la proposta occidentale di totale azzeramento, da entrambe le parti, delle armi di teatro a lungo raggio». Come dire che i missili di Comiso hanno influito in maniera determinante sulle trattative per il disarmo, segnando una svolta per l’Occidente.
Nella storia della fine della guerra fredda, un capitolo è stato scritto in Sicilia.
Curioso che se ne parli così poco. Ha annotato Arrigo Levi, un giornalista estraneo ai sensazionalismi, a proposito della scelta di insediare in Sicilia la base per gli euromissili: «Non credo siano molti gli italiani consapevoli del fatto che quella nostra decisione [...] contribuì in modo straordinario, forse perfino decisivo, alla caduta dell’impero sovietico e alla fine del comunismo». Il primo ad ammetterlo, del resto, è stato un americano, Richard Gardner, ambasciatore a Roma dal 1977 al 1981: l’installazione dei missili a Comiso, ha scritto nelle sue memorie, «avrebbe avuto un peso decisivo nel convincere Gorbaciov ad adottare una politica estera più illuminata e di conseguenza nel determinare il crollo del comunismo e la caduta del Muro di Berlino». E viene da pensare ai timori tedeschi: che accogliere i nuovi missili sul proprio territorio esponesse al rischio di dover affrontare esplosioni di terrorismo.
In quei primi mesi del 1979, dunque, la Sicilia si avvia a diventare uno snodo fondamentale della strategia difensiva della Nato, candidandosi a ospitare la sede della più grande base nucleare d’Europa. È un progetto che gli americani perseguono non senza preoccupazioni. Secondo l’ambasciatore Ciarrapico, due sono le ragioni più forti di inquietudine per gli Usa: la presenza dei movimenti pacifisti e la forza del partito comunista in Italia. Ha scritto l’ambasciatore Gardner che, negli anni della presidenza Carter (gennaio 1977-gennaio 1981), l’Italia era «considerata dagli Stati Uniti “il problema politico potenzialmente più grave in Europa”».
Le ragioni sono presto dette: tra le elezioni amministrative del 1975 e le politiche del 1976 il Pci ha segnato una straordinaria avanzata elettorale. Nel 1976 il settimanale americano Time ha dedicato una copertina al segretario comunista Enrico Berlinguer, bollandolo come «Pericoloso».
Se non è un Wanted, come nei vecchi manifesti western per la caccia ai criminali, poco ci manca. E proprio la Sicilia è stato il laboratorio politico dove, a partire dal 1975, si è sperimentata in anteprima, con la formula dell’unità autonomista, la politica del compromesso storico tra la Dc di Aldo Moro e il Pci di Enrico Berlinguer.
Dal 1976 al 1978, per il governo dell’isola si sono varate le «larghe intese», formula che periodicamente riemerge nella politica italiana.
Il misterioso caso Sindona
Sarà un caso ma è nel 1979, in estate, che il banchiere Michele Sindona, in fuga da New York – dove è stato arrestato con l’accusa di bancarotta – arriva in Sicilia, scortato da mafiosi e massoni, e si nasconde a Palermo, dove incontra Stefano Bontate e gli espone il progetto di un golpe anticomunista, sostenendo di parlare a nome di ambienti americani.
Tommaso Buscetta attribuisce a Bontate una rude replica a quell’offerta: «Gli disse: “Lei mi sembra pazzo, sono stanco di colpi di Stato. Se li vada a fare lei”». Aggiunge: «L’hanno mandato via, l’hanno cacciato. Gli hanno detto: “vai via”». E val la pena di notare che, se la storia è vera, è la seconda volta in meno di dieci anni che qualcuno chiede l’appoggio della mafia per un golpe: i congiurati del principe Borghese nel 1970, Sindona nel 1979. C’è un altro personaggio legato a Cosa Nostra che sostiene di aver saputo nel 1979 di un progetto separatista per la Sicilia.
È Angelo Siino, il geometra di San Giuseppe Jato che si professa amico d’infanzia di Insalaco. Il 14 luglio 1997, Siino, da collaboratore di giustizia, riferisce di un piano separatista, organizzato dalla massoneria d’intesa con la mafia nei tardi anni Settanta, con l’appoggio degli Stati Uniti, in funzione anticomunista.
Ma dice di aver saputo di quel progetto prima della venuta di Sindona e ne parla come se si trattasse di un piano differente. Notizie campate in aria? Nel giudizio corale dei magistrati, Siino è un collaboratore di giustizia più che attendibile. E in tema di massoneria, può vantare una certa competenza.
A ventott’anni, nel 1972, è stato ammesso nel Grande Oriente d’Italia, nella loggia Dante Alighieri. Poi è passato alla Camea, il misterioso Centro di attività massoniche ed esoteriche accettate che incrocerà il cammino della P2. Siino, che è un massone di grado 33, sostiene di aver conosciuto «in quell’ambiente» Licio Gelli. Suo fratello di loggia, nella Camea, era Bontate.
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