Vi era il quotidiano “La Sicilia” che si limitava ad un’opera di mera informazione, assolutamente inidonea a svolgere un’azione di denuncia all’opinione pubblica. E vi erano anche personaggi autorevoli delle istituzioni pubbliche che nessun problema avevano a farsi fotografare in cerimonie ufficiali assieme a Benedetto Santapaola
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania. Nel 2003 la Cassazione condanna il boss Nitto Santapaola all’ergastolo perché ritenuto il mandante dell’omicidio. Mentre Aldo Ercolano e Maurizio Avola (reo confesso) sono stati condannati come i killer dell’omicidio.
Tra l’altro tali rassicurazioni servivano a tranquillizzare Santapaola, che da parte sua continuava a leggere sulla rivista “I Siciliani” tutti gli articoli che nel tempo vennero, con sempre maggiore schiettezza, veemenza ed assiduità, pubblicati da Fava per denunciare all’opinione pubblica il vergognoso intreccio che regnava a Catania in quell’epoca tra mafia politica ed affari, di cui non si erano ancora accorti (rectius: voluti accorgere) né la stampa né molti autorevoli personaggi delle istituzioni pubbliche né, forse per un effetto meramente indotto, la maggior parte della collettività catanese.
Ed, all’uopo, vanno ricordati i numeri della rivista, versati in atti, con i quali vennero evidenziati l’assassinio del generale Dalla Chiesa, ricollegato subito tra gli altri anche a Benedetto Santapaola; quei numeri che rivelarono la guerra cruenta combattuta a quell’epoca tra le varie cosche mafiose che si contendevano il predominio su Catania ed il ruolo svolto in quest’ambito da Benedetto Santapaola con il prezzo di un centinaio di uomini uccisi mediamente per ogni anno; quei numeri con i quali, espressis verbis, vennero rappresentati, nella loro realtà triste ed al contempo ignobile, il c.d. “caso Catania” relativo ad una ispezione svolta dal Csm sull’attività della locale Procura della Repubblica, in particolare per il fatto che ai cavalieri del lavoro venivano rilasciate delle certificazioni che consentivano loro di partecipare alle gare di appalto, seppure in alcuni rapporti di polizia fossero emersi degli indizi di reato a loro carico (caso che coinvolse anche alcuni esponenti di spicco della magistratura catanese); la vicenda relativa ai contributi per miliardi assegnati dall’ispettorato provinciale dell’Agricoltura, con il beneplacito dell’assessore regionale competente Aleppo ai cavalieri del lavoro (a seguito della quale il detto assessore fu costretto a dimettersi ed i contributi non vennero erogati); l’inchiesta sul sistema bancario siciliano, che chiamava in causa i cavalieri Graci e Costanzo, proprietari di istituti di credito in rapida espansione grazie al rapporto privilegiato con l’Assessore Regionale alle Finanze; l’inchiesta sull’appalto relativo al palazzo dei congressi di Palermo aggiudicato al cavaliere Costanzo, che disvelava il sistema di spartizione degli appalti in Sicilia governato dalla mafia, oltre a tutti gli altri articoli con i quali per esempio si denunciava la sistematica aggiudicazione da parte dei cavalieri del lavoro degli appalti di opere pubbliche per importi miliardari, che i mass media additavano invece come strumento fondamentale ed ineludibile per il mantenimento dei livelli occupazionali in favore dei cittadini catanesi in particolare.
A fronte di un quadro tanto devastante nella sua realtà, vi era il quotidiano “La Sicilia” che si limitava ad un’opera di mera informazione tanto asettica e formalmente ineccepibile, quanto assolutamente inidonea nella sostanza a svolgere un’azione di denuncia all’opinione pubblica (che necessitava indubbiamente di toni forti, vibranti, assidui, veementi e sistematici, tutti assenti in seno alla informazione fornita sul punto dal quotidiano “La Sicilia”, per come sopra detto), e vi erano contestualmente personaggi autorevoli delle istituzioni pubbliche che nessun problema avevano a farsi fotografare in cerimonie ufficiali assieme a Benedetto Santapaola, mentre il Csm, per come sopra detto, era costretto a fare una ispezione negli uffici della locale Procura della Repubblica (in quel momento retta dal Procuratore Aggiunto in mancanza del Procuratore Capo) per accertamenti in ordine alla corretta gestione di alcuni procedimenti che interessavano i cavalieri del lavoro.
Vennero fatti anche dei tentativi per fare recedere Fava dalla azione di denuncia suindicata: Graci offrì la somma di L. 250.000.000 per l’acquisto della testata relativa alla rivista “I Siciliani” e propose a Fava di riprendere la direzione del Giornale del Sud, mentre l’onorevole Andò fece presente a Fava la possibilità di rivestire un ruolo di rilievo nell’ambito della televisione privata di proprietà del cavaliere del lavoro Costanzo.
Tutto fu inutile ed ogni profferta venne sdegnosamente rifiutata da Fava, pur avendo egli avvertito chiaramente un clima fortemente ostile nei suoi confronti, che gli procurò una sensazione di paura, di angoscia e di grande preoccupazione confidata ai propri familiari.
In questa situazione, perdurando da un lato ostinatamente ed incessantemente da parte di Fava l’azione di denuncia dell’intreccio mafia politica ed affari e risultando del tutto impotente dall’altro lato qualsiasi tentativo rivolto a fare recedere Fava medesimo da detta azione, indubbiamente la rabbia e la insofferenza che Benedetto Santapaola aveva manifestato già quando si trovava in casa della Amato a Siracusa a Natale 1982 (allorché andò in edicola il primo numero della rivista “I Siciliani”, e cioè quello riguardante i c.d. cavalieri dell’apocalisse), in maniera tanto ferma, decisa e radicale da fargli maturare la decisione di uccidere Giuseppe Fava (decisione tosto rappresentata ad Aldo Ercolano, che della stessa si fece portavoce ed intermediario in seno alla consorteria e per la cui attuazione concreta venne in quella prima fase officiato Nino Cortese), con il passare del tempo si accrebbero vieppiù, tanto da rendere ormai assolutamente improcrastinabile la uccisione di Fava ed al contempo assolutamente furibondo Benedetto Santapaola per il ritardo con il quale si evolvevano gli sviluppi organizzativi dell’omicidio, per come testualmente rappresentato ad Avola dal portavoce ufficiale di Benedetto Santapaola, e cioè da Aldo Ercolano, il quale stava sempre “curando l’omicidio”.
Reputa piuttosto la Corte che, seppure i racconti della Amato e del Pattarino per certi versi siano tra loro autonomi l’uno dall’altro (per il mancato richiamo della Amato alla confidenza fatta dal Cortese al Pattarino e per la presenza del Mangion alla visita di Ercolano e Cortese riferita da Pattarino e negata dalla Amato oltre che per alcuni particolari relativi al prelevamento del Santapaola ad Agnone Bagni), non può non riconoscersi che, dati i rapporti che intercorrevano tra la Amato ed il Pattarino (rispettivamente madre e figlio), trattasi di una fonte di conoscenza che va considerata unitaria, essendo del tutto naturale in questa situazione la esistenza di un flusso di informazioni reciproche tra i due.
Santapaola ospite a Siracusa legge “I Siciliani”
È stato dedotto dalle difese di molti imputati e da Benedetto Santapaola personalmente in sede di dichiarazioni spontanee come deve ritenersi del tutto inverosimile il fatto che egli avesse parlato del proposito omicidiario nei confronti di Fava in presenza di una donna (la Amato) e di un ragazzo di anni sedici (il Pattarino).
Va però rilevato che all’interno della casa di via Monteforte in Siracusa si era creato un clima di grande familiarità tra il Santapaola e la Amato, tra i quali intercorreva un rapporto di amicizia, fondato evidentemente sui rapporti che entrambi avevano con Francesco Mangion (amante della Amato e vice rappresentante della famiglia e quindi vicario in quel momento di Santapaola), e la riprova di ciò è data anche dalla frequentazione che la Amato aveva con la moglie di Santapaola (Minniti Carmela) e dai rapporti di grande solidarietà che vi era tra le due donne, tanto che la Amato si allontanava dalla sua casa quando la Minniti andava a trovare il marito: in questo contesto e tenuto conto poi che il clima di familiarità in tali situazioni viene di per se stesso ad essere favorito, è ben possibile che Santapaola e la Amato stessero a conversare fino a notte fonda per come dalla Amato riferito.
In questa situazione è poi naturale che il figlio della Amato, Pattarino Francesco, convivendo con la madre, si fosse trovato nella possibilità materiale di ascoltare le conversazioni intrattenute dalla madre con l’illustre ospite e peraltro, una volta captato all’origine il tema della discussione assolutamente piccante, che certamente avrà eccitato la fantasia del ragazzo, è naturale che questi fosse andato successivamente proprio alla ricerca di ogni occasione possibile, anche furtiva (come in occasione della visita di Ercolano e Cortese avvenuta poco prima di Natale del 1982), per orecchiare i discorsi relativi al proposito omicidiario del Santapaola che investivano un giornalista famoso, direttore peraltro di quella stessa rivista che il ragazzo certamente avrà avuto modo di vedere spesso in quel periodo in casa, se non addirittura di acquistarla su commissione della madre a sua volta delegata da Santapaola.
È stato rilevato dalla difesa di D’Agata Marcello che inattendibile sarebbe il riferimento fatto dalla Amato ad una conoscenza del D’Agata (il quale nel racconto della Amato si sarebbe recato a volte nella casa della Amato per visitare Santapaola), poiché la descrizione che la collaborante aveva fatto del D’Agata in dibattimento non corrisponderebbe affatto alla realtà, mentre il riconoscimento fotografico effettuato il 9/12/1993 sarebbe stato agevolato dal fatto che la Amato aveva avuto modo di osservare una foto del D’Agata che era stata pubblicata pochi giorni prima sul giornale “La Sicilia” in occasione del blitz c.d. Viale Ionio.
Ebbene, a parte che non è stato rinvenuto il riscontro documentale di quest’ultima circostanza, rileva la Corte che la Amato all’udienza del 30/1/1997, con riferimento alla capigliatura del D’Agata, ha escluso in realtà che egli avesse capelli lunghi ed ha riferito di capelli ricci, castani, tagliati ed ordinati e dalla fotografia in atti risulta che il D’Agata non fosse affatto completamente calvo (per come trovasi ora), ma solo leggermente stempiato e riccioluto, mentre con riferimento al modo di esporre verbalmente la Amato ha detto solo che il D’Agata parlava il dialetto catanese, il che non è incompatibile con la balbuzie da cui sarebbe affetto D’Agata.
E poi è da considerare che la frequentazione della Amato con D’Agata risale agli anni 1982-1983-1984, per cui è ovvio che la descrizione che la Amato fece delle fattezze fisiche del D’Agata è fondata sulla frequentazione suddetta e non può essere certo influenzata dal mutamento che naturalmente di tali fattezze interviene fatalmente in ogni persona umana nel giro di dieci anni, per cui è ben possibile (ed anzi è estremamente probabile) che D’Agata nel 1982 non fosse neanche leggermente stempiato, per come è ritratto nella foto del 1993: non c’è dubbio alcuno che D’Agata (come molti) è andato progressivamente incontro al fenomeno della perdita dei capelli, per cui egli ora è completamente calvo, nel 1993 era leggermente stempiato e dieci anni prima all’età di trentacinque anni ben poteva avere ancora i suoi capelli corti ed ordinati per come puntualmente osservati dalla Amato e per come dalla stessa riferito; in ordine alla balbuzie che non sarebbe stata osservata dalla Amato, ma neppure esclusa (per avere la Amato detto solo che D’Agata parlava il dialetto catanese), non vi è prova in atti che essa si fosse manifestata con carattere di grande evidenza già negli anni 1982-1983-1984 quando il D’Agata e la Amato si frequentarono assiduamente.
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