Nel 1995 Benedetto Santapaola veniva condannato quale mandante del delitto, Aldo Ercolano quale mandante organizzatore ed esecutore materiale del delitto, Marcello D’Agata Francesco Giammuso e Vincenzo Santapaola quali esecutori materiali del reato.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania. Nel 2003 la Cassazione condanna il boss Nitto Santapaola all’ergastolo perché ritenuto il mandante dell’omicidio. Mentre Aldo Ercolano e Maurizio Avola (reo confesso) sono stati condannati come i killer dell’omicidio.
Con riferimento alla uccisione di Giuseppe Fava avvenuta a Catania il 5.1.1984 la Corte di Assise di Catania ha affermato, in seno alle due sentenze impugnate emesse rispettivamente il 18.7.1998 ed il 23.7.1998, la penale responsabilità, a titolo di concorso nel reato di omicidio pluriaggravato così come contestato al capo A) del decreto che fissava il giudizio del 6.6.1995, di Benedetto Santapaola quale mandante del delitto, di Aldo Ercolano quale mandante organizzatore ed esecutore materiale del delitto, di D’Agata Marcello Giammuso Francesco e Santapaola Vincenzo quali esecutori materiali del reato, e di tutti i suddetti imputati anche per il concorso nei reati satelliti di detenzione e porto illegale di una pistola calibro 7,65.
Hanno proposto appello i difensori di tutti gli imputati suindicati, assumendo in estrema sintesi che dalle risultanze processuali non emergeva la prova della responsabilità degli stessi nonché la parte civile costituita “I Siciliani di Sebastiano Gulisano & C. s.a.s.”, dolendosi che in seno alla sentenza appellata era stata omessa la liquidazione delle spese giudiziali in favore di detta parte civile.
Nitto Santapaola e gli affari con i Cavalieri del Lavoro
Il movente in seno ad entrambe le sentenze impugnate è stato individuato, a seguito di una analisi completa e pregevole delle risultanze processuali, nella necessità avvertita da Benedetto Santapaola di stroncare la denuncia dell’intreccio mafia politica ed affari che il giornalista Giuseppe Fava faceva all’opinione pubblica dalle pagine della rivista “I Siciliani”, con attacchi continui, diretti e senza veli ai cavalieri del lavoro ed a Benedetto Santapaola, tra i quali era stato stipulato un contratto di protezione con prestazioni sinallagmatiche, denuncia che aveva irritato notevolmente Benedetto Santapaola.
In tema la Corte, al fine di evitare inutili riproduzioni che avrebbero solo l’effetto di appesantire la trattazione, si riporta a tutto quanto sul punto è stato detto nelle due sentenze impugnate, e precisamente in quella emessa il 18.7.1998 da pag. 638 a pag. 687 ed in quella emessa il 23.7.1998 da pag. 21 a pag. 23, che in questa sede deve intendersi integralmente riprodotto e trascritto, in aderenza peraltro ad un principio giurisprudenziale ormai acquisito (v. per tutte Cass. 5.1.2002 n. 176 ric. Beber).
E, infatti, sul punto è stato affermato che la motivazione per relationem è legittima (come nel caso in esame) allorché si faccia riferimento ad un atto legittimo del procedimento, come la sentenza di primo grado, la cui motivazione sul tema del movente dell’omicidio di Giuseppe Fava, elaborata con assoluto rigore logico, dovizia di riferimenti specifici e aderenza massima alle risultanze processuali, si appalesa ineccepibile ed è pienamente condivisa dalla Corte e ritenuta del tutto impermeabile alle censure che, peraltro estremamente generiche, sono state sollevate sul punto in seno ai motivi di appello; non c’è dubbio poi che l’atto di riferimento è conosciuto dalle parti in tutto il suo contenuto, onde diviene facilmente esercitabile la facoltà di valutazione ed eventualmente di gravame e, conseguentemente, di controllo da parte del giudice dell’impugnazione.
La scarsa attendibilità di Maurizio Avola
La Corte provvederà ad analizzare solo le poche censure specifiche che in tema sono state svolte in seno ai motivi di appello formulati dai difensori degli ed in sede di discussione.
Va poi aggiunto che la uccisione di Fava realizzò pure qualcosa di gradito negli ambienti di cosa nostra palermitana, per il fatto che Fava nei suoi scritti aveva pure censurato l’arroganza di Luciano Liggio anche nei rapporti personali (per via della relazione che Liggio avrebbe intrattenuto con la fidanzata del sindacalista ucciso Placido Rizzotto), donde la soddisfazione dei palermitani per la eliminazione del giornalista (senza peraltro che essi all’uopo avessero dato preventivamente alcun mandato), di cui è traccia nella dichiarazione di Avola, il quale ha riferito come nell’immediato post factum, allorché il commando omicida era confluito nella casa in cui si trovava Francesco Mangion, dopo un brindisi a base di champagne, quest’ultimo ebbe a dire che con la uccisione del giornalista si erano presi due piccioni con una fava.
Scarsamente attendibile appare invece il riferimento fatto da Avola in occasione della dichiarazione resa al pm il 16.3.1994, sulla base di una notizia rivelatagli da D’Agata, ad un incontro con i palermitani al quale aveva partecipato Salvuccio Marchese quale rappresentante provinciale della famiglia catanese, al cui esito i palermitani, tramite appunto il Marchese, chiesero a Santapaola di eliminare Fava, che aveva scritto della relazione di Liggio con la fidanzata del sindacalista Rizzotto.
E, invero, sulla base delle risultanze processuali acquisite agli atti, appare dubitabile che Salvuccio Marchese abbia potuto partecipare all’incontro suddetto come rappresentante provinciale della famiglia, carica che egli in quel momento non aveva, essendo la stessa invece ricoperta da Giuseppe Ferrera.
Orbene le dichiarazioni sul punto rese dall’Avola, in effetti, sono inattendibili, non solo perché contraddittorie, ma anche perché smentite da quelle di altri collaboranti.
In un primo tempo, infatti, nell’interrogatorio dell’11/3/94, il predetto collaborante aveva sostenuto che la carica di rappresentante provinciale prima che scoppiasse la guerra con i Ferrera ( fine 88, inizio 89) era ricoperta da Pippo Ferrera, il quale era subentrato a Salvuccio Marchese; che, successivamente, per un dissidio tra il Ferrera ed il Malpassotu, tale carica era stata affidata direttamente da Santapaola Benedetto a suo fratello Salvatore.
Nell’interrogatorio del 17/3/94 Avola aveva sostenuto che nel 1984 rappresentante provinciale era Salvuccio Marchese; nel corso dell’interrogatorio del 15/4/94 Avola aveva invece sostenuto che nel 1984 la carica di rappresentante provinciale era di Giuseppe Ferrera e che a questi era subentrato Salvuccio Marchese, che aveva mantenuto la carica per circa due anni e l’aveva lasciata quando si era diffusa la notizia della collaborazione di Calderone, cioè nel 1987; che a quel punto le funzioni di rappresentante provinciale erano state di fatto svolte, per circa due tre mesi, prima dal D’Agata e da Galea e dopo da Pippo Mangion.
Palese è, quindi, la contraddizione tra le due dichiarazioni del collaborante, il quale, sentito successivamente nel procedimento Santapaola +3, all’udienza del 17/2/95 a specifica domanda su chi avesse ricoperto la carica di rappresentante provinciale, in un primo momento ha dichiarato che “la provincia era dei Ferrera” e che dopo Ferrera Giuseppe la carica era stata ricoperta da Salvatore Santapaola ed Eugenio Galea e solo in un secondo momento ha sostenuto che a Ferrera Giuseppe era subentrato Salvuccio Marchese e dopo di questi provvisoriamente il D’Agata.
Nel corso dell’udienza del 13-5-96, nel procedimento Orsa 1, l’Avola ha ulteriormente modificato le proprie dichiarazioni, sostenendo che il Ferrera era stato rappresentante molto prima del 1984 e che nel 1983-84 il rappresentante provinciale era stato Salvuccio Marchese.
A parte le altalenanti contraddizioni di tali affermazioni, che le rendono del tutto inattendibili, deve osservarsi che gli altri collaboranti hanno reso sul punto dichiarazioni nettamente contrastanti con quelle dell’Avola.
Innanzi tutto Calderone Antonino, che meglio di ogni altro conosceva le vicende del Marchese Salvuccio, suo parente, ha riferito che questi, pur essendo uomo d’onore, non aveva mai rivestito alcuna carica nell’ambito della famiglia e che rappresentante provinciale negli anni settanta era stato suo fratello Giuseppe e che alla morte di questi, nel 78, la carica era stata data a Salvatore Ferrera.
Anche Pulvirenti Giuseppe, all’udienza del 5-12-96, ha dichiarato che il Marchese non aveva mai rivestito cariche, ma che era solo uomo d’onore e che Ferrera Giuseppe era l’interprovinciale.
Ulteriore conferma del fatto che il Marchese non avesse mai rivestito cariche nell’ambito della famiglia proviene da Natale Di Raimondo.
Questi ha, infatti, costantemente affermato che il Salvuccio Marchese non aveva mai avuto cariche all’interno di Cosa Nostra e che la carica di rappresentante provinciale era stata di Ferrera Giuseppe, che l’aveva mantenuta sino alla data del suo arresto nel 1989 e che prima la medesima carica era stata rivestita dal di lui padre Ferrera Salvatore.
Il favore fatto con la uccisione di Fava alla famiglia palermitana, riferito da Avola, non appare neppure essere stato riscontrato dagli stessi collaboranti di area palermitana, che nessuna indicazione hanno fatto in ordine ad una richiesta espressa di uccisione del Fava siccome proveniente dagli ambienti palermitani.
Deve rilevarsi comunque che la inattendibilità del riferimento di Avola al presunto favore fatto ai palermitani non incide sugli altri segmenti della dichiarazione di Avola relativi al reale movente della uccisione di Fava (e tanto più alla fase esecutiva del delitto), in ossequio al principio della valutazione frazionata della dichiarazione dei collaboranti quando vengano in rilievo dei segmenti autonomi sul piano fattuale e logico.
© Riproduzione riservata