Chi era quest’uomo? Un ribelle, un infame, un illuso, un traditore, un opportunista, un idealista? Era un ex sindaco democristiano rimasto in sella 101 giorni come un cowboy in un rodeo. Era un perdente intorno al quale era stato scavato un fossato di disprezzo e solitudine e che sognava inutilmente la rivincita.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
Lavoravo allora a Palermo, in un piccolo giornale dalla grande storia, L’Ora. Qualcuno dei nostri amici, dei nostri colleghi, tornava a volte stranito tra noi, perché aveva visto il capo dei nemici in pasticceria, l’aveva incontrato dal dentista.
E che razza di guerra era questa, se il nemico comprava i pasticcini dove noi li compravamo, se andava dal nostro stesso dentista? In quale guerra i buoni e i cattivi entrano insieme nello stesso momento nella stessa pasticceria? Ma la guerra c’era, e noi lo sapevamo. C’era, delle guerre, il sangue, la paura, le armi, i sospetti, i tradimenti. C’erano i cadaveri per terra, i proiettili e le bombe. C’era la guerra. E ci fu chi la guerra se la portò nel cuore e la combatté dilaniandosi, e divise la sua vita in un prima e in un dopo che non si assomigliavano.
Ci furono talmente tanti morti ammazzati che ciascuno negli anni a venire poté scegliere quali celebrare e quali dimenticare, a chi dedicare targhe parchi piazze monumenti e chi seppellire per sempre. E ora sono qui, tra quaderni di appunti, libri, carte, fotocopie, sentenze, e provo a mettere a fuoco l’immagine di un uomo: Giuseppe Insalaco, detto Peppuccio o Pippo, e mi domando chi era. In un giorno di gennaio, l’ultimo della sua vita, nella trattoria di un paese sul mare, disse a una donna, l’ultima della sua vita: «Quando avrò sessant’anni, ti dirò tutta la verità su di me». Immagino che l’avrà detto ridendo, con l’aria un po’ misteriosa, giocando con la meraviglia della sua compagna come succede nei giochi innocenti dell’amore. E la sera di quel giorno, riverso sul volante della sua macchina, con quattro proiettili in corpo, era un uomo che non avrebbe mai compiuto sessant’anni. Chi era quest’uomo? Un ribelle, un infame, un illuso, un traditore, un opportunista, un idealista? Non era un politico impegnato nel fuoco di una battaglia, come Pio La Torre, il segretario del Pci che si batteva contro la mafia e contro i missili.
Non era l’erede di una dinastia, il politico aureolato di carisma, un presidente della Regione siciliana destinato a una brillante carriera nazionale, come Piersanti Mattarella. Non era neppure un quadro di partito in ascesa sulla scena pubblica di Palermo, un politico spregiudicato pronto a spiccare il salto per il Parlamento nazionale, come Michele Reina, segretario della Dc provinciale.
Era un ex sindaco democristiano rimasto in sella 101 giorni come un cowboy in un rodeo, che in quei giorni aveva provato a fare una rivoluzione, ed era stato fatto fuori con brutalità dal potere, bruciato da una storiaccia giudiziaria di truffa e corruzione, fiaccato dall’abbandono del suo partito.
Era un perdente intorno al quale era stato scavato un fossato di disprezzo e solitudine e che sognava inutilmente la rivincita. E aveva una particolarità speciale: che aveva attraversato la nera palude del potere e voleva lasciarsela alle spalle lanciando una sfida temeraria, tentando l’azzardo della denuncia. In quella palude a Palermo sguazzavano politici e mafiosi, burocrati e avvocati d’affari, professionisti e imprenditori.
Chi ha ordinato di ucciderlo?
Di tutti questi, chi ordinò di ucciderlo? Una Corte d’Assise e una d’Appello, con l’ultimo sigillo della Cassazione, hanno detto che fu la mafia a toglierlo di mezzo. Ma fu il potere a espellerlo. Perché aveva osato l’inosabile, aveva sfidato il tabù supremo che la mafia condivide con il potere, qualunque volto il potere assuma: il divieto di cambiare le cose. Insalaco era un traditore. Perché chiunque voglia cambiare, in Sicilia, è un traditore.
Oggi mi dico che se la Sicilia è lo specchio fatato in cui si riflette il futuro dell’Italia, questo cadavere sepolto con troppa fretta e troppo fango deve significare qualcosa. E quel qualcosa è che la storia del potere a Palermo è stata una storia di complici, legati da un patto con il diavolo. E l’hanno ucciso perché il potere non si lascia processare.
Dopo Insalaco, mai più un politico di Palermo ha provato a raccontare il romanzo nero del potere. Democristiano o no, mai più un politico ha tentato quell’azzardo. Insalaco è stato un unicum: un uomo che sembrava deciso a descrivere dall’interno il marciume della città. Un illuso, un pazzo, un ribelle determinato a rischiarare con le torce il cuore di tenebra della politica. Questo era il cuore della politica italiana, a Palermo: tenebra e marciume, paura e menzogna.
Ed ecco che un uomo decide di attraversare quella tenebra impugnando una torcia accesa. E corre e la luce squarcia il buio. Bisogna fermarlo, e per fermarlo bisogna ucciderlo. E sul cadavere rovesciare fango, una slavina di fango, perché tutto si confonda, perché il morto taccia. Perché in Sicilia, recita il proverbio, il morto giace e il vivo si dà pace. Rileggo i fatti, li metto in ordine: c’è un incastro di coincidenze che colpisce.
La fulminea sindacatura Insalaco, dall’aprile al luglio del 1984, quei cento e uno giorni tra l’elezione e le dimissioni, tra il trionfo e la caduta – 101 giorni in pubblico, sotto i riflettori – coincidono con la decisione di Tommaso Buscetta di collaborare con Giovanni Falcone, una decisione segreta, destinata a cambiare la storia di Cosa Nostra.
Mentre Insalaco, come un acrobata sul filo, sfidava in pubblico i padroni di Palermo, un mafioso e un magistrato cominciavano a tracciare in segreto la strada verso il maxiprocesso, l’evento che ha cancellato i troppi anni delle assoluzioni per insufficienza di prove e ha trasformato questo paese in un paese in cui la mafia può essere processata e condannata, anche all’ergastolo. Ventisette giorni dopo la sentenza del maxiprocesso, Insalaco viene ucciso.
Morto lui, ecco che uno dopo l’altro, magistrati, poliziotti, gli eroi civili che l’Italia ama piangere quando muoiono e ignora o combatte finché sono in vita, gli eroi civili che avevano costruito il maxiprocesso vengono dispersi, umiliati, sconfitti, allontanati. Ma non dalla mafia: dallo Stato. E il primo a essere sconfitto, umiliato, è Giovanni Falcone. C’è un nodo in questa storia, ed è un nodo che non si riesce ancora a sciogliere.
È il rapporto che tutti noi, cittadini di questo paese, abbiamo con la verità e con la verità che riguarda la mafia e il potere: i loro legami, le loro complicità, le loro trattative, i loro patti segreti. Giuseppe Insalaco aveva raccontato alcune verità indicibili, altre ancora minacciava di rivelarne.
Aveva pronunciato ad alta voce nomi che venivano solo sussurrati, o taciuti addirittura. Era un ribelle. Contro un potere che tollera solo complici. E la sua morte, il suo assassinio gronda di simboli come una sciarada. Metto insieme i pezzi del puzzle, le tessere di quella sera del 12 gennaio 1988, la sera del delitto.
Insalaco muore a settecento metri dalla casa di Vito Ciancimino, l’emblema di una politica che ha fatto patti col diavolo. È un caso? Chi lo uccide semina dietro di sé un formidabile numero di indizi, come mai è accaduto in un omicidio di mafia.
È un caso? Tra quegli indizi, c’è il mezzo scelto per l’agguato: una Vespa bianca, la stessa utilizzata dalla squadra di fuoco che andò a uccidere Ninni Cassarà. Cassarà era un poliziotto; Insalaco era stato l’uomo-ombra di un ministro di polizia, Franco Restivo.
Uomo ombra di un ministro dell'interno
È un caso? Gli assassini si portarono dietro due pistole; una era stata usata, cinque anni prima, per assassinare un capitano dei carabinieri, Mario D’Aleo, che insidiava, con un’abilità e una tenacia che la mafia giudicò intollerabile, i capi della cosca di San Giuseppe Jato. Insalaco era figlio di un maresciallo dei carabinieri ed era nato a San Giuseppe Jato.
I mafiosi che lo uccisero disponevano di un arsenale intero. Perché scelsero proprio quella pistola? È un caso? Attenzione: quell’arma non sparò nel delitto Insalaco, ma venne portata sulla scena – sul palcoscenico, forse – di quell’esecuzione, e abbandonata con sei proiettili nel tamburo, gettata a terra come un guanto di sfida. È un caso? Il giorno dopo i quotidiani scrissero che l’arma sembrava la stessa usata per assassinare il capitano D’Aleo.
Eppure, dopo il delitto, per più di un anno la pistola venne messa da parte: nessuno la sottopose a perizia per stabilire se e quando avesse sparato prima. È un caso? I due assassini, fuggendo, lanciarono a terra i caschi. I giornali scrissero che nei caschi c’erano molti capelli e analizzandoli si sarebbe potuto ricavare il dna dei killer. Ma la polizia assicurò che quei capelli non sarebbero stati analizzati.
È un caso? Quando, anni dopo, si fece davvero l’analisi del dna sui capelli – e c’erano già due mafiosi indicati come gli assassini, e uno di loro aveva confessato – si constatò che non uno di quei capelli coincideva con quelli dei sospetti killer. È un caso, si disse, può succedere.
Davvero è un caso? La Vespa abbandonata, i caschi buttati a terra, le pistole gettate sotto le macchine in sosta: ce n’era abbastanza perché Raffaele Ganci, patriarca di una famiglia di macellai e uomini d’onore, convocasse i killer e li coprisse di insulti. Si era consegnata agli investigatori, si infuriò il patriarca, la chiave del delitto. Ma nessuno usò quella chiave. E per anni la sgangheratezza dell’agguato venne invocata per sostenere che era il crimine di due balordi, che non c’entravano niente con la mafia. Perché la mafia è esatta, inesorabile; la mafia non fa errori.
Ed era di mafia, invece, l’agguato. Ma ci vollero anni per saperlo, ci volle un rapinatore scalcagnato che ai magistrati disse: «Volete che vi parli di Insalaco?» Otto anni ci vollero per cominciare uno straccio di indagine. E nel frattempo si inseguirono solo abbagli e false piste, e ogni volta che le indagini approdavano a un risultato credibile, si scatenava un depistaggio. È un caso? Non amo la dietrologia e detesto il complottismo: sono fratello e sorella, figli immaturi di una democrazia fragile, che avanzano abbracciati in un paese che ha paura della verità.
Ma se questi fatti non sono accaduti a caso, chi era allora Giuseppe Insalaco e perché si è fatto di tutto per non sapere per quale ragione è stato assassinato? C’è un politico, a Palermo, che è stato eletto sindaco per quattro volte. Si chiama Leoluca Orlando. Mi ha detto che Insalaco è stato ucciso «con il consenso dei salotti politici palermitani».
Ma solo i killer sono stati condannati e sui mandanti è calato il sipario. È un caso? C’è stato un momento in cui questo libro mi è sembrato necessario. È successo una sera del novembre 2013, a Palermo. Stavo per concludere due settimane di ricerca, di interviste, di incontri. Andai a cena da un’antica amica. Suo figlio, un trentenne di smagliante intelligenza che vive in Brasile, era tornato in vacanza nella sua città. Parlammo di molte cose e su molte cose scherzammo.
Poi madre e figlio mi chiesero che cosa stessi facendo a Palermo. Risposi che lavoravo su Insalaco. E quel trentenne che sapeva di politica e di economia, dell’Italia e del mondo, ripeté quel nome con esitazione: non ricordava di averlo mai sentito.
Dunque, pensai, ce l’hanno fatta: sono riusciti a cancellarlo dalla memoria di questa città. Anche la politica ha le sue lupare bianche, i suoi scomparsi – «fatti scomparsi», si dice a Palermo, per intendere che non è da sé, per loro scelta, che scompaiono. Ma quale futuro ha un paese che dimentica il passato?
© Riproduzione riservata