È Il Giornale di Sicilia a intimare a Insalaco lo sfratto: il 12 luglio scrive che è sotto inchiesta, «sospettato di interesse privato». Quel giorno stesso il sindaco si dimette. E’ il primo sindaco di una grande città che si trova nei guai con la giustizia. A suo modo, un precursore. In quel lontano 1984 la bufera di Tangentopoli era ancora di là da venire e la corruzione italiana era ancora un segreto taciuto.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
Nei giorni del potere, Insalaco si barrica nel suo ufficio. Trasforma la sua stanza da sindaco – un’enorme sala tappezzata di damaschi rossi che confessa di non amare – in un archivio. Ricopre di atti amministrativi i sei sofà addossati alle pareti, come se volesse disporre il puzzle degli intrighi e degli affari. Trascorre ore rintanato lì dentro, in una sorta di condizione da assediato liberamente scelta. Vive di sospetti. Si sente circondato da gente infida.
Alla moglie confida che gli capita di trovare nella posta ordinaria i mandati di pagamento per la Icem e la Lesca: gli venivano infilati di soppiatto nella corrispondenza perché in un momento di distrazione li firmasse. Vive nel terrore di firmare carte compromettenti. Martedì 3 luglio si varano i nuovi vertici delle municipalizzate. All’Amat, l’azienda dei trasporti, viene designato Nicola Graffagnini, segretario provinciale della Dc; all’Amnu, nettezza urbana, Umberto Di Cristina, docente universitario di Urbanistica; al Gas, Ignazio Romano Tagliavia, docente universitario di Elettronica. All’Amap, acquedotto, Gaspare Mistretta, ex presidente dell’ospedale Villa Sofia.
La commissione provinciale di controllo annullerà tutto. Nella notte tra venerdì 6 e sabato 7 luglio il Consiglio comunale discute le dimissioni del cianciminiano Midolo. Capelli ravviati all’indietro, baffetti a triangolo, corpulento, un’aria da guappo, Midolo pronuncia la sua orazione anti Insalaco in un silenzio carico di tensione.
Legge sette cartelle. Attacca il sindaco per la «mancata trasparenza», alla quale «si è aggiunta la mancata chiarezza nei rapporti umani». Dice di Insalaco: «Istituzionalizzando il mendacio nei rapporti interpersonali, instaurando un clima di sospetto su tutto e su tutti, minacciando denunzie a destra e a manca, ha finito con il creare una barriera di incomunicabilità che non mi consente più di poter ulteriormente collaborare con lui».
Accusa il sindaco di aver predisposto «un equivoco capitolato» e sostiene che tutti e tre gli ultimi sindaci di Palermo hanno manifestato una «irresistibile tendenza all’avocazione». Il giovane assessore al decentramento Leoluca Orlando lo ascolta prima con stupore, poi con divertimento: si è accorto che Midolo si riferisce all’avocazione pronunciando «la vocazione», con uno stacco sensibile tra l’articolo e il sostantivo, come se non capisse quello che dice o come, più semplicemente, se stesse recitando un testo che qualcuno ha scritto per lui, un copione concordato. Conclusa la lettura, Midolo si alza, si avvicina lentamente alle pesanti tende di velluto rosso che oscurano le finestre dell’aula, ne scosta una che nasconde un telefono. Solleva la cornetta, compone un numero, parla brevemente e chiude.
È una perfetta scena teatrale. Dall’altra parte del filo, c’è Vito Ciancimino. Anch’io, mandata dal giornale, andai a una di quelle sedute di Consiglio comunale quando sembrava che Insalaco si dovesse dimettere. Avrei dovuto scriverne, se il sindaco avesse gettato la spugna. Ma quella sera non lo fece. Ricordo il frastuono dell’aula e i giochi grotteschi dei consiglieri: Insalaco, sulla poltrona di sindaco, era bianco come un lenzuolo e si guardava attorno con occhi straniti.
Non appena si voltava, dai banchi dei consiglieri c’era chi lo additava e subito si metteva le mani sulle orecchie o stringeva le labbra per emettere suoni gutturali, grugniti, in un’indecente imitazione dei sordomuti. Un consigliere missino mi parlò a lungo dei guai giudiziari del sindaco. Andai via prima che la seduta finisse e a quel punto sapevo già tutto della segretissima inchiesta sull’Istituto dei sordomuti. Tutti sapevano tutto.
Lo scoop del Giornale di Sicilia
È Il Giornale di Sicilia a intimargli lo sfratto: il 12 luglio scrive che Insalaco è sotto inchiesta, «sospettato di interesse privato». Quel giorno stesso il sindaco si dimette. Sarà la donna che ha con lui un legame sentimentale, Elda Tamburello, a raccontare la reazione dell’uomo che ha la delicatezza di chiamare il suo «fidanzato», nel momento in cui il sostituto procuratore Carmelo Carrara gli consegna una comunicazione giudiziaria per truffa. Lo descrive stupito, turbato.
Dopotutto è il primo sindaco di una grande città che si trova nei guai con la giustizia. A suo modo, un precursore. In quel lontano 1984 la bufera di Tangentopoli era ancora di là da venire e la corruzione italiana – la vasta, diffusa, pervasiva corruzione italiana – era ancora un segreto taciuto. Non che non ci fosse.
E colpisce che il sindaco confidasse alla sua compagna di aver trovato in Municipio il “marciume”, come se per dimensioni e imponenza lo avesse stupito – lui, Insalaco, che non era un santo –, come se avesse guardato per la prima volta nel pozzo del potere e lo avesse scoperto pieno di fango. In pubblico Insalaco non parla di marciume. Usa parole più caute. Trascrivo da una sua intervista rilasciata in quei giorni a Giuseppe Cerasa, cronista del giornale L’Ora: «Io credo che la vicenda del rinnovo degli appalti, oltre che delle municipalizzate, abbia finito col paralizzare l’attività della giunta oltre misura.
E questa è la riprova che al Comune di Palermo è difficile, quasi impossibile governare in libertà. Se uno ci prova, scattano dei comportamenti che a prima vista potrebbero sembrare inspiegabili, slegati fra loro. Poi viene fuori una logica precisa e ci si accorge che la filippica affidata in Consiglio comunale all’ex assessore Midolo aveva un preciso significato». In quell’«affidata» c’è un messaggio in codice, rivolto al puparo che dietro Midolo si intravede La conclusione è sconsolata: «In questi tre mesi ho capito quanto sia veramente difficile fare il sindaco a Palermo».
In quei giorni partono da Punta Raisi i funzionari di polizia giudiziaria che dovranno prendere in consegna Tommaso Buscetta e portarlo in Italia. Lo aspetta, a Roma, il giudice istruttore Giovanni Falcone. Per quarantacinque giorni, in una stanza della Criminalpol, Buscetta racconterà i segreti di Cosa Nostra a Falcone. Venerdì 20 luglio arriva a Palermo il segretario nazionale della Dc Ciriaco De Mita. Partecipa per la prima volta a una riunione del comitato regionale del suo partito.
Al dimissionario Insalaco è stata dichiarata la solidarietà del gruppo, con quella rumorosa unanimità che, in politica, è il segno più certo del tradimento imminente; il senatore Silvio Coco, commissario della Dc, gli assicura che deve continuare a fare il sindaco. Quattro giorni prima, in segreto, ha provveduto a silurarlo, trasmettendo all’alto commissario antimafia, che lo girerà alla procura, un secondo esposto anonimo sulla storia del terreno venduto dall’Istituto Sordomuti.
In un salone di Villa Igiea, la splendida residenza liberty dei Florio diventata l’albergo più affascinante della città, girando lo sguardo sugli uomini del suo partito, un De Mita preoccupato domanda in un sussurro al segretario regionale, Giuseppe Campione: «Secondo te, quanti mafiosi ci sono qua dentro?»
Il giorno delle dimissioni
Lunedì 23 luglio il Consiglio comunale discute le dimissioni del sindaco. Dalla sua elezione, il 13 aprile, sono trascorsi 101 giorni. Insalaco è dimagrito di otto chili e invecchiato di dieci anni. Le dimissioni vengono accolte con 53 sì e 3 no. In uno slancio di galanteria, il sindaco consegna alle consigliere comunali grandi mazzi di strelitzie. Quando i fiori arrivano in Municipio, i commessi strabuzzano gli occhi: pensano a uno scherzo macabro, immaginano che siano corone per un funerale. Al giornalista Gabriello Montemagno, che gli domanda se ha paura, Insalaco risponde: «Sì, certo, ho paura».
Un’ora dopo, le manifestazioni di protesta cessano. Come obbedendo a un comando concordato, gli operai di Lesca e Icem tornano a casa. E poiché nella storia di Palermo misteriose coincidenze legano i fatti, proprio in quei giorni Buscetta rende al giudice Falcone la sua testimonianza forse più celebre – l’unica, in quella stagione, che alluda a un legame tra la mafia e la politica. Racconta che nel 1980, quando, da detenuto in semilibertà, era fuggito da Torino con l’intenzione di rifugiarsi all’estero, Pippo Calò gli aveva suggerito di restare in Italia, perché a Palermo si potevano fare montagne di soldi con i finanziamenti per il risanamento del centro storico, «operazione, questa, gestita da Vito Ciancimino, corleonese, che era, secondo le testuali parole di Calò, nelle mani di Totò Riina».
L’epilogo è nel segno dello sfinimento e del terrore. Il 26 luglio, nella piazza Pietro Micca di Boccadifalco, si inaugura la Settimana culturale della borgata. Insalaco è invitato: è pur sempre il sindaco, sia pure dimissionario. Ma si presenta l’assessore al Decentramento, Leoluca Orlando. Così ricorda quel giorno: «Era stato Insalaco a chiedermi di andarci. A cerimonia quasi finita, arrivò lui. Stravolto. Mi disse: “non ce la faccio, sono finito, veramente finito. Mia figlia è malata, ho mandato mio figlio a Londra, io non reggo più perché, alla fine, io sono Peppuccio Insalaco, non mi chiamo Luca Orlando. Tu alzi un telefono e a Roma qualcuno ti risponde; a me non risponde nessuno”. Disse anche: “me la faranno pagare”». A fine luglio diventa ufficiale la notizia che la Guardia di Finanza ha consegnato al Parlamento un rapporto sui patrimoni sottratti ai mafiosi.
L’Espresso pubblica un inserto di ventiquattro pagine «sui beni mobili e immobili sequestrati o confiscati agli uomini dei clan» da Milano a Palermo. Scrive che sono 450 i miliardi già sequestrati o confiscati dal 1982, data di entrata in vigore della Rognoni-La Torre, e che in virtù di quella legge sono state censite ventitremila persone sospette, compilate quattromila schede economiche e altre seimila sono in via di compilazione.
Nell’elenco, per la parte che riguarda la Sicilia, il più corposo numero di proprietà risulta intestato a Michele e Salvatore Greco. I due fratelli sono miliardari: hanno terreni immensi, feudi interi, possiedono quote di società come la Dea, che si occupa di derivati agrumari. Michele Greco ha anche una Ferrari e quote di una società cinematografica, fondata da suo figlio Giuseppe. Manca in quell’elenco il nome di uno degli uomini più ricchi di Palermo: Vito Ciancimino. Nell’autunno 1984 una perizia bancaria gli attribuirà redditi per 700 milioni di lire l’anno (909.222 euro a valori 2011) e un flusso di introiti, costante da almeno dieci anni, pari a 55-56 milioni al mese, più di settantunmila euro.
Nei dodici anni dal 1972 al 1984, Ciancimino ha versato sui propri conti, in Italia, cinque miliardi 629 milioni di vecchie lire. E sempre nel novembre 1984 risulta titolare di un conto canadese per più di un milione di dollari. Arriva a conclusione il processo sulla strage Chinnici. Con l’accusa di esserne i mandanti, Michele e Salvatore Greco sono condannati all’ergastolo; assolti i presunti esecutori, Vincenzo Rabito e Pietro Scarpisi. La sentenza che condanna i mandanti di un attentato che non si sa chi abbia eseguito sembra fatta apposta per essere ribaltata in appello e travolta in Cassazione, come difatti accadrà. Il presidente della Corte d’Assise che l’ha emessa è un anziano magistrato. Si chiama Antonino Meli.
Farà parlare di sé quattro anni dopo, quando sconfiggerà Giovanni Falcone nella nomina a capo dell’Ufficio istruzione di Palermo. Scontento della sentenza, il procuratore capo di Caltanissetta, Sebastiano Patané, affida ai microfoni del Tg3 una frase inquietante e oscura: «È giusto che i cittadini sappiano che lo Stato italiano non è nelle condizioni di svolgere una buona lotta alla mafia. Ci sono nello Stato italiano carenze e intromissioni di una certa rilevanza che noi abbiamo dovuto constatare anche in questo processo». Inutilmente gli verrà chiesto di spiegarsi meglio. Non tutti i magistrati sono così sconsolati. In quei giorni anche Paolo Borsellino dà un’intervista a L’Ora. Dice due cose importanti.
La prima è che già dopo gli omicidi del presidente della Regione, Piersanti Mattarella, e del capitano dei carabinieri Emanuele Basile, Chinnici aveva raggiunto la convinzione che ci si trovasse di fronte a «un attacco della mafia alle istituzioni»: «Non più, cioè, a delitti dovuti a motivi specifici, ma a un piano criminale organizzato». La seconda osservazione di Borsellino è una stupefacente professione di ottimismo: «Possiamo guardare con fiducia al futuro.
Per la prima volta si intravede la possibilità di dare un colpo decisivo al fenomeno mafioso. C’è un calo degli omicidi, non passa settimana che non venga preso un latitante pericoloso... La pax non è un buon motivo per esultare. Gli arresti dei latitanti, però, sono il segnale che qualcosa sta scricchiolando nell’organizzazione criminale. Poi ci sono i pentiti». E propone di adottare anche per loro premi e sconti di pena, come si fece con il terrorismo. I pentiti di quella stagione si chiamano Stefano Calzetta, Vincenzo Sinagra, Vincenzo Marsala: figure minori, che la storia ha dimenticato. Di Buscetta, nessuno sa. Per quarantacinque giorni Giovanni Falcone ha verbalizzato con la pazienza di un amanuense ogni sua dichiarazione, riuscendo a mantenere il segreto.
È possibile che l’intervista di Borsellino sia stata concordata con Falcone: un modo per cominciare ad aprire un nuovo capitolo nella lotta alla mafia. Lunedì 6 agosto cala definitivamente il sipario sull’avventura di Insalaco a Palazzo delle Aquile. Venticinque consiglieri comunali della Dc, d’accordo con i repubblicani di Aristide Gunnella e con due socialdemocratici, scelgono come sindaco Stefano Camilleri, un ex dipendente del Municipio che è andato in pensione a quarantacinque anni per farsi eleggere consigliere comunale.
Il nuovo sindaco durerà in carica solo due mesi. Gli basteranno per firmare mandati di pagamento per nove miliardi a favore della Lesca di Cassina. Nei giorni della caduta, Insalaco va a pranzo, «in un locale lussuoso di via Libertà», con un giornalista de l’Unità, Ugo Baduel, che è incuriosito dall’«ardore» del personaggio e lo descrive «scatenato contro la mafia e contro il potere Dc che le stava alle spalle».
Dopo l’assassinio, Baduel rievocherà quell’incontro: «Mi disse di avere ancora l’auto blindata “finché me la lasciano” e di avere mandato la famiglia fuori Palermo in una località segreta. Ma di che cosa hai paura? chiesi (mi aveva pregato di dargli il tu “come segno di fiducia”). “Di fare la fine di Mattarella” disse secco». Sabato 11 agosto, alle tre del pomeriggio, in via Ludovico Muratori, una silenziosa traversa dalle parti del Policlinico, un killer di mafia, Francesco La Marca, ruba un Vespone bianco. Quattro anni dopo, su quello scooter saliranno i killer di Insalaco.
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