Bisognerà aspettare il 17 aprile 1989 perché la magistratura pronunci la sua prima sentenza sulla vendita del terreno dell’Istituto Sordomuti. Giuseppe Insalaco è già stato ucciso; è morto convinto di poter demolire le accuse al processo. Ma la sentenza non lo assolve. Anzi lo bolla come un corrotto e definisce i sessantasei milioni una «tangente»
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
La stella di Insalaco come paladino antimafia si spegne in una cella dei Cavallacci, il carcere di Termini Imerese. E si spegne proprio un attimo dopo che la sua battaglia contro i padroni degli appalti si è conclusa con una vittoria. Il 4 febbraio 1985 il prefetto Gianfranco Vitocolonna si insedia in Municipio come commissario straordinario.
Sarà lui ad avviare le procedure perché si arrivi alle gare pubbliche per l’assegnazione dei lavori di manutenzione di luce, strade e fogne: Cassina e Parisi stanno per uscire di scena. Il 5 febbraio la procura della Repubblica spicca un mandato di cattura contro Giuseppe Insalaco per i reati di peculato, falso e corruzione. Nel pomeriggio di quel giorno l’ignaro ex sindaco si unisce al pubblico che, in un’aula dell’Università, ascolta Nando Dalla Chiesa, venuto a presentare un libro sull’assassinio di suo padre, Delitto imperfetto. «Fu un gesto visibile, che non poteva non avere un significato: il libro era stato accusato del suicidio di Nicoletti» ricorda Dalla Chiesa. «Alla fine della presentazione Insalaco mi attese, si fece avanti in una marea di folla e venne a salutarmi. Questo mi colpì molto».
Passano poche ore e i militari della Guardia di Finanza incaricati di eseguire il mandato di cattura si presentano al portone di via Notarbartolo. Hanno un breve diverbio con gli uomini di guardia al giudice Falcone. È un malinteso banale: la scorta del giudice è insospettita dall’arrivo di un drappello di uomini in divisa, non sarebbe la prima volta che i mafiosi si travestono per un agguato. Poi tutto si chiarisce e i finanzieri entrano nel palazzo. Salgono fino all’appartamento di Insalaco, non trovano nessuno. Non sanno che l’ex sindaco scende spesso a casa della madre per cenare. Se ne vanno a mani vuote. Da quel momento, ufficialmente, Insalaco è un latitante. La mattina dell’8 febbraio il Giornale di Sicilia gli dedica l’editoriale di prima pagina.
Il compassato quotidiano del mattino, che fa del garantismo la propria bandiera, infilza con disinvoltura l’ex sindaco: «A lungo sostenuto dal Pci e dalla grande stampa come un campione di rinnovamento, è accusato dai giudici di essere un ladro». Finiscono in carcere, per l’affare del terreno venduto, la baronessa Maria Vittoria Agnello e i cugini Saccone. La baronessa dichiara che la sua firma sull’assegno di sessantasei milioni, per dirottare la somma sui conti di Insalaco, è falsa: non ha mai visto l’assegno né mai lo ha girato al suo ex compagno. Viene scarcerata.
Qualche giorno dopo una donna si presenta in Procura, chiede di essere ascoltata: sostiene di aver incontrato la baronessa a cena, subito dopo la scarcerazione, in un ristorante alla moda. Non era sola: al suo tavolo sedeva Bruno Contrada, l’uomo dei servizi segreti, il capo di gabinetto dell’alto commissario antimafia Emanuele De Francesco. Contrada smentirà con forza. Dirà che la sua amicizia con la baronessa Agnello dura da vent’anni, ma che non ha mai cenato con lei in quei mesi del 1985. La testimone si è sbagliata, assicura Contrada: deve averla confusa con un’altra donna.
La latitanza
Il 16 febbraio l’introvabile Insalaco fa recapitare alla procura della Repubblica un memoriale in cui si dichiara «vittima di una manovra tendente a screditarmi come uomo e come politico». Un mese dopo il settimanale Panorama pubblica un’intervista con l’ex sindaco. Insalaco attacca a testa bassa il capo della procura, Vincenzo Pajno, «magistrato brillantissimo, che però è stato nominato cavaliere del Santo Sepolcro dal conte Cassina». Attacca il pm Carmelo Carrara, presentandolo come genero di Salvatore Palazzolo, «notoriamente amico di Vito Ciancimino».
Attacca Cassina: «Ha distribuito montagne di soldi [...] mi risulta che sborsi una cinquantina di milioni al mese da dividere tra politici e funzionari compiacenti». Attacca Ciancimino, «il vero padrone dell’isola, il signore degli appalti, il boss politico capace di decretare la vita e la morte dei governi cittadini». Attacca l’alta burocrazia comunale, elencando con nome e cognome «ingegneri capo delle ripartizioni tecniche: urbanistica, edilizia, lavori pubblici, manutenzioni». Si definisce «un ingenuo»: «Volevo combattere mafia e corruzione. A Palermo non si può fare». L’intervista deflagra con la potenza di una bomba. Continuando a restare nascosto, Insalaco la smentisce: mai parlato con i giornalisti, mai dette quelle cose. Ma nel testo ci sono tali e tanti dettagli e tali e tanti nomi da rendere la smentita inverosimile.
E c’è pure un’osservazione che sembra anticipare una possibile linea di difesa: «Se mi fossi lasciato corrompere, non avrei accettato un titolo bancario in pagamento. Soltanto uno sciocco si sarebbe comportato così. E io stupido non sono mai stato». Il 23 febbraio viene ucciso Roberto Parisi, il padrone della Icem, l’impresa che sta per perdere l’appalto per l’illuminazione pubblica. Non è il primo e non sarà l’ultimo imprenditore assassinato a Palermo. Tra il 1985 e il 1988, calcolerà la Commissione antimafia, in dodici muoiono ammazzati, in uno stillicidio di esecuzioni.
La Cosa Nostra di Totò Riina stringe la presa sugli imprenditori. Angelo Siino userà parole pesanti per definire la condizione delle imprese: la Sicilia occidentale, dirà, è «assoggettata». È la stessa formula che, prima di essere assassinato con un’autobomba, aveva usato il giudice Rocco Chinnici. Gli dettero del comunista. A Siino è dura dare del comunista.
In carcere
Il 28 marzo Insalaco si consegna. Nel suo primo interrogatorio in carcere rivela di essere sempre rimasto nell’edificio di via Notarbartolo, spostandosi tra il suo appartamento e quello della madre. La città si riempie di sussurri. Latitante nello stesso palazzo in cui abita Falcone – si maligna – l’ex sindaco, per vendicarsi, ha raccontato al più famoso giudice istruttore d’Italia tutti i segreti dei legami tra mafia e politica. È una menzogna, ma diffonde il panico.
Il ricordo della lunga audizione di Insalaco all’Antimafia rende quella bugia terribilmente credibile. Il tempo dell’impunità sembra finito. Buscetta ha trascinato nel fango gli intoccabili: Vito Ciancimino è al confino; i cugini Nino e Ignazio Salvo in galera. I potenti vivono nel terrore che arrivi il giorno del giudizio. In carcere Insalaco riferisce ai magistrati la sua versione. Sostiene che Maria Vittoria Agnello gli aveva affidato la gestione del proprio patrimonio; aggiunge che la baronessa aveva acquistato da Orazio Saccone due appartamenti, poi non li aveva più trovati di proprio gusto e aveva rinunciato ad acquistarli. Il costruttore le aveva restituito la caparra con un assegno.
I famosi sessantasei milioni, assicura Insalaco, non sono altro che quella caparra. Ma la baronessa dice tutt’altro: l’acquisto degli appartamenti non c’è mai stato; Insalaco le aveva fatto firmare un documento nel quale si sosteneva che lei avesse avuto rapporti d’affari con i Saccone, ma era tutto falso. È una delicata partita tra un uomo e una donna – lei abbandonata, e questo aggiunge pathos alla storia, la rende una vicenda di possibili vendette, la inquina di rancore. Mentre Insalaco è in cella gli arriva una condanna a otto mesi, per detenzione illegale di munizioni: si tratta di quattro cartucce trovate a casa sua durante una perquisizione. «Erano vecchie cartucce del nonno» ricorda la figlia. Collezionista di armi con regolare licenza, Insalaco non era autorizzato a possedere munizioni. La giustizia, quando vuole, è solerte, veloce, meticolosa. Il 12 agosto Insalaco esce dal carcere.
Nel ricordo di sua figlia Ernesta, «Era distrutto moralmente, ma non voleva dimostrarlo»: «Era bianchissimo quando tornò a casa. Aveva comprato la lampada abbronzante, ci teneva a dimostrare che non l’avevano demolito. Io lo vedevo incattivito col mondo, diceva che alcune persone che credeva amiche non lo erano state e che altri, da cui non si aspettava nulla, gli avevano dato dimostrazioni di solidarietà. Non erano persone del suo partito, perché mi faceva nomi che non conoscevo». Al processo la moglie riferirà una confidenza di quei giorni: «Mi ha detto: “sono entrato in un gioco più grande di me; forse, se avessi accettato determinate cose, oggi sarei un uomo ricco e sicuramente non braccato come sono ora, costretto a difendermi continuamente”».
La sentenza
Bisognerà aspettare il 17 aprile 1989 perché la magistratura pronunci la sua prima sentenza sulla vendita del terreno dell’Istituto Sordomuti. Giuseppe Insalaco è già stato ucciso; è morto convinto di poter demolire le accuse al processo. Ma la sentenza non lo assolve. Anzi lo bolla come un corrotto e definisce i sessantasei milioni una «tangente» (così, tra virgolette). Eppure è una ben strana storia quella che la sentenza ricostruisce.
È la storia di un terreno incolto di ventimila metri quadri che l’Istituto Sordomuti acquista a Falsomiele a metà degli anni Sessanta con l’intenzione di costruirvi la nuova sede. Passano gli anni, la nuova sede non si fa: dal 1971 l’Istituto prova a vendere il terreno e non ci riesce. Nell’aprile del 1977, quando Insalaco si insedia come commissario governativo, il legale dell’Istituto gli consiglia di disfarsi del terreno. Insalaco chiede una valutazione all’Ute, l’Ufficio tecnico erariale. Nel giugno del 1978 arriva la risposta: una prima valutazione, fatta da un geometra, per un importo di settanta milioni viene corretta in novanta da un funzionario di grado superiore. Il 30 giugno 1978 Insalaco mette in vendita il terreno per la cifra massima stabilita dall’Ute. Ci vuole più di un anno perché spunti un acquirente, e sono i cugini Gaetano e Michele Saccone, imparentati con quell’Orazio Saccone che – scrivono i giudici – Insalaco conosce molto bene, perché è legato a Stefano Bontate.
Il 9 novembre 1979 si firma il contratto dal notaio: il prezzo è di cento milioni di lire. L’Ute, chiamato a giudicare se la cifra sia congrua, dà parere positivo. Quel 9 novembre Orazio Saccone ordina alla Cassa Rurale e Artigiana di Monreale di emettere i famosi due assegni circolari: cento milioni per il commissario e sessantasei per la baronessa Agnello. Tre giorni dopo, Insalaco deposita su un suo conto i soldi della Agnello. Una perizia accerterà che la firma della baronessa sull’assegno da sessantasei milioni è falsa. La donna, scrivono i giudici, è stata «vittima inconsapevole» del suo compagno «che si servì del suo nome per occultare attività che gli avevano arrecato esclusivo vantaggio».
La spiegazione che, di quei sessantasei milioni, l’ex sindaco aveva dato – che si trattasse, cioè, della restituzione della caparra per due appartamenti che la baronessa aveva acquistato da Orazio Saccone e che poi non le erano più piaciuti – non viene neppure presa in considerazione. D’altra parte, non c’è alcuna spiegazione del fatto che la caparra, se di caparra davvero si trattava, sia finita sui conti privati di Insalaco. Quei soldi, scrivono i giudici, sono la prova della corruzione del commissario dell’Istituto, che ha venduto per cento milioni un terreno che, secondo una perizia d’ufficio, ne valeva dai centoquaranta ai centottanta. Ma non spiegano che vantaggio avrebbe avuto Orazio Saccone nello sborsare comunque centosessantasei milioni per aggiudicarsi un terreno che, nella migliore delle ipotesi, valeva dodici milioni in più e, nella peggiore, ventisei in meno né dicono perché hanno ritenuto di assolvere i due alti funzionari dell’Ute che stimarono congruo un prezzo di cento milioni.
Pronunciata poco più di un anno dopo l’assassinio di Insalaco, quando il delitto è ancora avvolto dal mistero, la sentenza lascia cadere una pietra tombale sulla memoria dell’ex sindaco, consegnandolo alle cronache come un corrotto. Come a suggerire che la tacita damnatio memoriae che contro di lui è stata pronunciata è, al più, una dimostrazione di pietà.
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