Chiamato a sostituire un morto suicida, Insalaco percorre i corridoi di Palazzo dei Normanni come un morto vivente. Nel gruppo democristiano, tutti lo schivano. Del suo impegno di parlamentare regionale, restano poche testimonianze.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
Il mistero dell’uomo Insalaco è tutto concentrato in quei mesi. Perché si ribella? Perché sfida così platealmente i suoi nemici? Elio Sanfilippo è convinto che quel comportamento fosse suggerito dall’ambizione: «Era una seconda fila che ambiva a diventare una prima. Il suo disegno era sostituire Gioia a capo della corrente fanfaniana. Esperto di tattica, fece un errore di valutazione politica: pensò che, utilizzando i comunisti, sarebbe riuscito a colpire la vecchia guardia e a passare alla storia come l’uomo del rinnovamento. Non capì che la Dc si stava sbriciolando. L’élite lo considerava un parvenu, la città lo giudicava una parentesi, i suoi ne diffidavano, dicevano che fosse un ricattatore, che avesse le schede di tutti fin dai tempi di Restivo. Alla fine, quando venne fuori la storia dell’Istituto Sordomuti, anche il Pci fu in imbarazzo nel sostenerlo».
Nonostante la durezza del giudizio, Sanfilippo è convinto della sincerità di Insalaco: «Era un ambizioso e un uomo di potere, ma credeva davvero in quel che faceva. Negli anni a venire, tutti parleranno di Leoluca Orlando come di un campione del rinnovamento, ma chi ha iniziato a rompere il sistema di potere a Palermo è stato Insalaco, non Orlando».
Umberto Santino, storico del movimento antimafia, legge un sentimento diverso dall’ambizione nella ribellione di Insalaco: «Ebbe uno scatto d’orgoglio. Era un uomo che sapeva un mucchio di cose. A un certo punto decise di parlare». Silurato come sindaco, ridotto al rango di semplice consigliere comunale, Insalaco sembra destinato a uscire rapidamente di scena. Ma il caso, che a Palermo indossa spesso i panni della tragedia, decide diversamente. Il 27 novembre 1984 diventa deputato regionale.
Il suicidio di Nicoletti
Tre anni prima, si era candidato all’Assemblea, aveva ottenuto 38.452 preferenze ed era risultato il primo dei non eletti a Palermo. Così tocca a lui subentrare a Rosario Nicoletti, l’ex segretario della Dc siciliana. Il 17 novembre Nicoletti si è ucciso lanciandosi dal balcone della sua casa. Quella morte suggella una storia tragica, segnata dall’ambiguità.
Negli anni Settanta Nicoletti era stato, con Piersanti Mattarella, lo stratega della politica di unità autonomista, come si chiamò allora la versione siciliana del compromesso storico. Anche gli avversari lo hanno sempre additato come una delle intelligenze più lucide della Dc siciliana. Nel settembre 1982 Nando Dalla Chiesa lo include, con Lima Martellucci e D’Acquisto, tra i mandanti morali dell’assassinio di suo padre. Nicoletti non si dà pace.
Emanuele Macaluso lo ricorda dieci anni prima, a Milano, al congresso del Pci che elesse alla segreteria nazionale Enrico Berlinguer: «Seguì i lavori come ospite. Andammo a pranzo io, lui e Domenico La Cavera, che era il presidente degli industriali siciliani. A tavola ci fece un racconto da uomo spaventato che diceva e non diceva e a noi chiedeva “io che devo fare?”. Per molto tempo La Cavera tornò a ricordarmi quell’incontro e domandava: ma che cazzo voleva? Si capiva che era un uomo che aveva partecipato a qualcosa e subiva il ricatto». Macaluso crede che, nella Dc siciliana, esistessero due livelli: «C’erano quelli che organicamente partecipavano a tutto; altri erano e non erano dentro: nel senso che sapevano, conoscevano, avevano partecipato, ma con timidezza, con distacco e, quando tentavano di riscattarsi, venivano ricattati».
Ho un ricordo molto netto di Nicoletti in un giorno speciale: il giorno dell’assassinio di Piersanti Mattarella. Era l’Epifania del 1980, una domenica. L’Ora non avrebbe dovuto essere in edicola, ma il direttore, Nicola Cattedra, decise per un’edizione straordinaria. Venni mandata a casa Mattarella.
Nelle sbrigative istruzioni che si usa dare in cronaca, a me toccava «raccontare la vedova». Avevo ventitré anni e una passione sconfinata per il mestiere, ma l’idea di andare da una donna che poche ore prima aveva tentato di proteggere il marito mentre un killer gli sparava addosso, facendogli scudo con il proprio corpo, e di rivolgerle anche soltanto una domanda, mi ripugnava. Ma un cronista è un soldato: deve portare a casa il pezzo, non può rifiutarsi.
A casa Mattarella la porta era aperta: entrai, mi fermai di fronte al divano su cui era seduta la signora Irma, restai per ore immobile, a osservare il fiume di gente che le scorreva davanti. Condoglianze, baci, abbracci, brevi parole sommesse. Arrivò anche Nicoletti, pallido, gli occhi gonfi, la grande testa che ricordava un elefante stanco.
Si lasciò cadere sul divano, accanto alla vedova. Disse, e parlava più a se stesso che a lei: «Hanno lanciato in aria una moneta; su un verso, c’era la mia faccia, sull’altro quella di Piersanti. È uscito lui». Molti anni dopo un pentito di mafia, Francesco Marino Mannoia, raccontò di una sfuriata di Stefano Bontate a Nicoletti, una sfuriata per strada, in una traversa di via Libertà, forse proprio davanti alla sede della Dc di via Isidoro La Lumia. Disse che Bontate, salendo in macchina, aveva sibilato: «Questo crasto (“cornuto”), se non mette la testa a posto, lo dobbiamo ammazzare».
E aggiunse un corollario sconcertante: che era stato Nicoletti a svelare a Bontate l’intenzione di Mattarella di condurre una lotta rigorosa contro Cosa Nostra, spezzando tutte le vecchie complicità. L’angoscia di Nicoletti, in quell’Epifania di sangue, era rimorso? Un documento impressionante su Nicoletti è la relazione che tenne al convegno regionale che, il 13 e il 14 novembre 1982, la Dc organizzò a Palermo sulla lotta alla mafia. La rintraccio in un volume di scritti custodito nell’archivio dello storico Pierluigi Basile. Dalla Chiesa era stato ucciso tre mesi prima.
Nella sua ultima intervista aveva raccontato a Giorgio Bocca la propria solitudine, i poteri negati, gli impegni disattesi. Dopo l’assassinio del generale, la Dc siciliana, sotto accusa, aveva deciso di difendersi: il convegno sulla lotta alla mafia segnava l’avvio di una strategia di contrattacco. Nicoletti lo inaugura rivendicando il ruolo e la potenza del suo partito: una forza politica che ha il consenso di un milione e duecentomila siciliani, il 43 per cento dell’elettorato, e schiera un formidabile apparato di dirigenti periferici. Il passaggio più ardito del discorso è un’arrogante dichiarazione di innocenza: «Fino ad oggi, su diecimila persone che costituiscono i quadri del partito, nessuno è stato in condizione di indicare anche un numero esiguo di persone alle quali fondatamente possa attribuirsi la qualificazione di mafioso».
Si parla della Dc dei Salvo, di Ciancimino, di Pennino, di Salvatore Greco «il senatore». E il segretario del partito dice: non ci sono mafiosi tra noi. È l’estrema concessione di un uomo ricattato, che sa di non potersi concedere il lusso della verità? La politica è un’arte delle parole.
Qui, il trucco illusionista è tutto in quell’avverbio: «fondatamente». Quando Nicoletti parla alla platea del convegno, nessuno di quei signori può essere fondatamente indicato come mafioso: le indagini giudiziarie, le condanne, gli arresti sono di là da venire. Questo banale artificio consente al segretario di evocare l’Aldo Moro che nell’aula di Montecitorio, nei giorni dello scandalo Lockheed, reagiva alle accuse di corruzione scandendo: «Non ci faremo processare sulle piazze».
Il segretario della Dc siciliana ripete quella formula, adattandola allo scenario dell’isola. Ed è una macabra citazione, perché quando Nicoletti pronuncia quella frase, Moro è già stato processato: e non sulle piazze, ma nella prigione del popolo delle Br. Processato e condannato a morte.
All’Assemblea regionale
Chiamato a sostituire un morto suicida, Insalaco percorre i corridoi di Palazzo dei Normanni come un morto vivente. Nel gruppo democristiano, tutti lo schivano. Del suo impegno di parlamentare regionale, restano poche testimonianze. Gli archivi di Palazzo dei Normanni registrano a suo nome soltanto tre incolori proposte di legge: una per il riconoscimento giuridico del lavoro casalingo, un’altra per l’istituzione di una Commissione per le pari opportunità tra uomo e donna, l’ultima per l’introduzione di nuove norme per il calendario scolastico in Sicilia.
L’unico guizzo del deputato Insalaco è un’interpellanza nella quale si chiede conto alla Regione del ritardo nel nominare il commissario prefettizio per il Comune di Palermo dopo lo scioglimento del Consiglio. Presentata quando il governo regionale è dimissionario, l’interpellanza costringe il presidente, Modesto Sardo, l’andreottiano che aveva guidato l’assedio istituzionale al sindaco Insalaco, a nominare il prefetto Gianfranco Vitocolonna, un onesto funzionario dello Stato che non ha nulla a che vedere con gli intrighi palermitani.
Nelle carte di Insalaco, dopo il suo assassinio, si troverà un’autocritica desolata su quell’interpellanza. Averla presentata, scrive l’ex sindaco, è stato «un altro grande errore»: il successo politico ottenuto con la nomina del commissario al Comune ha dimostrato come Insalaco sia ancora in condizione di nuocere. Per i suoi nemici diventa urgente toglierlo di mezzo una volta per tutte. Ho chiesto all’Assemblea regionale siciliana di avere copia dell’interpellanza. Mi è stato risposto: «Il registro di interrogazioni e interpellanze non ha dato risultati su Insalaco». Nessuna traccia di quel documento. Sparito. Come la lettera a Craxi su Ustica, ingoiata da un buco nero.
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