E sarà pure uno strano pensiero, ma è un fatto che dal 1979 Cosa Nostra appare in sintonia con il pendolo misterioso che regge le sorti dell’Occidente, un pendolo che in quegli anni va spostandosi irresistibilmente a destra.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
In una splendida pagina di Furore, John Steinbeck spiega come gli americani sottrassero al Messico la California: «I messicani erano deboli e sazi. Erano incapaci di reagire, perché non volevano niente al mondo con la stessa ferocia con cui gli americani volevano la terra».
È la spiegazione che viene data più spesso della guerra con cui Totò Riina sbaragliò la mafia dei Bontate e degli Inzerillo: un duello rusticano tra i peri ’ncritati («i piedi incretati», sporchi di fango, i contadini di Corleone) e i padrini imborghesiti di Palermo; una manifestazione elementare di ferocia per la conquista dell’immensa ricchezza accumulata con il traffico di stupefacenti.
In realtà la cosca corleonese ha di corleonese i capi, Riina e Provenzano, ma schiera al loro fianco mafiosi di città, dai Ganci ai Marchese ai Graviano: è a Palermo che recluta il grosso del suo esercito. E la brutale replica di Calò a Bontate lascia intravedere scenari più complicati di un regolamento di conti tra mafiosi di paese e di città. Dunque, sul finire degli anni Settanta, qualcosa si è rotto negli equilibri di mafia.
Ma qualcosa si è rotto nella società palermitana, se la mafia deve riaffermare il proprio potere con la violenza. Per un azzardo del destino, proprio quando una serie di eventi internazionali consegnano a Cosa Nostra siciliana il ruolo di prima organizzazione criminale al mondo, l’evoluzione della società italiana fa sì che a Palermo, nel territorio che i boss considerano di proprio esclusivo sfruttamento, la quieta tana del lupo, arrivino in luoghi strategici personaggi che contro la mafia hanno posizioni limpide, nette, di rigorosa opposizione.
Personaggi cui il privilegio dell’intelligenza consente di leggere i nuovi affari delle cosche e la ragnatela delle loro relazioni – e che sono decisi a combatterle senza compromessi.
Anno 1979, cambia tutto
È così per il giornalista Mario Francese, che intuisce il groviglio di interessi imprenditoriali dei corleonesi nell’appalto per la costruzione della diga Garcia ben prima che le indagini della magistratura lo certifichino: le sue inchieste, pubblicate sul Giornale di Sicilia, sono una sfida e una provocazione.
E sono una sfida le indagini del capo della Mobile, Boris Giuliano, che è stato il primo a intuire la nuova potenza di Cosa Nostra nel traffico internazionale di eroina e sta ricostruendo, grazie agli assegni trovati in tasca a un mafioso assassinato, il filo che dalla mafia conduce al mondo degli affari. Come è una sfida che il procuratore Costa ordini l’arresto di Rosario Spatola, un costruttore che ha ripulito il proprio passato di venditore ambulante di latte, col vizietto di annacquarlo, diventando il quinto contribuente siciliano, un uomo davanti al quale, nel Municipio di Palermo, si spalancano le porte. Insidiata nel giardino di casa con un’intelligenza, un’abilità, una tenacia per il passato impensabili, Cosa Nostra si fa largo con il kalashnikov, impunemente.
Come è accaduto nell’immediato dopoguerra, quando morivano sindacalisti e capilega, le vittime hanno un legame con la sinistra. Michele Reina viene ucciso la sera stessa in cui si è presentato al congresso del Pci per proporre ai comunisti la collaborazione con la Dc al Comune. Cesare Terranova è appena rientrato a Palermo dopo due legislature come deputato indipendente eletto nelle liste comuniste e ha in tasca, praticamente certa, la nomina a capo dell’Ufficio istruzione, il centro pulsante delle inchieste.
Ha lasciato la commissione antimafia, a Roma, scoccando al missino Giorgio Pisanò una battuta fulminante: «Ma non ti rendi conto che mafia e politica sono la stessa cosa?» Piersanti Mattarella è un moroteo, forse il solo vero erede di Aldo Moro in Italia.
Da presidente della Regione, è stato lui a guidare il primo governo che ha incluso nella maggioranza i comunisti. Il capo della Procura della Repubblica, Gaetano Costa, nel Palazzo di Giustizia di Palermo ha fama di «procuratore rosso» perché ha combattuto come partigiano nella Resistenza, salvo poi rinunciare alla tessera del Pci per entrare in magistratura.
E sarà pure uno strano pensiero, ma è un fatto che dal 1979 Cosa Nostra appare in sintonia con il pendolo misterioso che regge le sorti dell’Occidente, un pendolo che in quegli anni va spostandosi irresistibilmente a destra. È Margaret Thatcher a salire al potere in Inghilterra e a piegare sindacati e laburisti.
È Ronald Reagan, nel 1981, a diventare presidente degli Stati Uniti e lanciare la sfida all’Impero del male, l’Urss. Mentre sulla Chiesa, dall’ottobre del 1978, si staglia la figura potente del nuovo papa, Giovanni Paolo II, il guerriero anticomunista.
Senza Commissione Parlamentare Antimafia
La prima domanda è: perché è successo? La seconda: perché non è successo? Perché lo Stato italiano resta immobile? Non c’è mafioso pentito che non dica come l’organizzazione sappia che a ogni delitto eccellente seguono repressioni dure; per questo occorre il consenso della commissione per deciderli.
Ma sul finire degli anni Settanta, Cosa Nostra si lancia nell’avventura spericolata di una sequenza di esecuzioni come se avesse la certezza di restare impunita. Chi dà alla mafia questa certezza? Questo è il punto. Nel 1963, quando una Giulietta riempita di tritolo, nella borgata di Ciaculli, ammazzò sette uomini tra carabinieri e militari dell’esercito, lo Stato reagì dando slancio alla Commissione parlamentare antimafia e varando una nuova legge sul confino per i mafiosi.
Nel 1971, dopo l’assassinio del procuratore capo Scaglione, decine di mafiosi vennero mandati al confino. Perché dal 1979 in poi niente succede? E per quale ragione, a Palermo, la polizia viene messa praticamente sotto il controllo della loggia P2, con un massone, Giuseppe Nicolicchia, «iscritto alla World organization of masonic thought (l’organizzazione fondata da Licio Gelli, all’inizio degli anni ’70, per esportare all’estero le trame della P2)», insediato come questore mentre, a capo della Squadra mobile, per sostituire Boris Giuliano dopo il suo assassinio, viene chiamato Giuseppe Impallomeni, tessera 2213 della loggia di Gelli? Degno di nota è che a Roma, negli anni della mattanza, non esiste più la Commissione parlamentare antimafia.
Nata nel 1962, con il primo centrosinistra al governo, la Commissione bicamerale d’inchiesta sul fenomeno mafioso si è estinta nel 1976. Dopo aver prodotto corpose relazioni sulla mafia, la sua espansione al Nord, i condizionamenti che esercita sulla politica, la Commissione conclude quattordici anni di lavori sostenendo che l’organizzazione criminale è indebolita, Ciancimino – il simbolo stesso del rapporto tra mafia e politica – alle corde. Generosa illusione.
Perché la Commissione rinasca, ci sarà bisogno che muoia il generale prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, il 3 settembre 1982. Sei anni di vuoto, che coincidono con il forsennato assalto mafioso a uomini delle istituzioni. Se ne stupisce uno storico come Nicola Tranfaglia, nient’affatto un dietrologo professionale.
Ecco il suo ragionamento, a proposito della conclusione dei lavori dell’Antimafia nel 1976: «L’espansione della mafia nel Nord è [...] ancora più chiara di quanto fosse risultato ai commissari nel 1972 ma, nonostante i segni evidenti di un pericolo che cresce di giorno in giorno, governo e parlamento sciolgono la commissione e troncano un lavoro che [...] andrebbe continuato e intensificato. Il tutto avviene mentre i terrorismi [sic, al plurale, e significa il rosso e il nero, N.d.A.] attaccano lo Stato e i partiti varano i governi Andreotti di solidarietà nazionale. C’è da chiedersi, ancora una volta, se ci sia un nesso e quale tra tutti gli avvenimenti di questo periodo».
Il ritorno di Don Vito
A Palermo c’è un personaggio che nei due anni tra il 1975 e il 1976 ha tremato per le vittorie comuniste e nel 1979 torna sulla scena con clamore. È Vito Ciancimino.
Nell’aprile 1976 ha mandato in Canada due dei suoi figli, Sergio e Giovanni, che non conoscono una parola d’inglese né di francese, con l’incarico di acquistare immobili per milioni di dollari. Ai magistrati, anni dopo, dirà che lo ha fatto per paura di una vittoria elettorale del Pci.
Temeva per “la roba” – e ne aveva tanta da difendere. Nel 1978 si è concesso una parentesi come imprenditore al Nord e l’ha reclamizzata con la consueta tracotanza, dichiarando ai giornali di essere «il cervello di molte operazioni finanziarie sui mercati lombardi».
Nel giugno 1979 la Dc lo esclude dalle liste per la Camera e lui reagisce facendo campagna elettorale per Attilio Ruffini, il ministro della Difesa che ha preso a cuore la vicenda degli euromissili. In campagna elettorale, Ruffini è l’ospite d’onore a una cena elettorale con gli Spatola, i mafiosi che vigileranno sul viaggio siciliano del bancarottiere Michele Sindona (e negherà d’aver mai saputo chi fossero quei suoi commensali, così prodighi di brindisi augurali).
Alle elezioni, Ruffini sarà il primo degli eletti. In un’intervista al settimanale economico Il Mondo, nell’ottobre 1979, il comunista Pio La Torre indica in Ruffini «il nuovo protettore» di don Vito. In quell’autunno Ciancimino riscuote il premio del suo impegno: torna a occupare l’ufficio di responsabile degli Enti locali per la Dc palermitana. Significa poter decidere chi governa in tutta la provincia: nomi di sindaci e assessori, alleanze di partito, tutto va discusso con lui.
E perché sia chiaro che vuole comandare sul serio, don Vito entra da padrone nella stanza del sindaco, il farmacista Mantione, e si siede al suo posto. Nessuno ha il coraggio di cacciarlo. È in quegli anni che Insalaco, il «figlio dello sbirro», comincia a dare segni di dissenso. Sono piccoli segni, sottotraccia, difficili perfino da registrare, difficili da interpretare.
Succede, per esempio, dopo l’assassinio di Gaetano Costa, il procuratore capo che i suoi sostituti avevano lasciato solo a firmare gli ordini di cattura per il potente clan Spatola-Inzerillo-Gambino. Il 6 agosto 1980, appena si diffonde la notizia della morte del procuratore, il gruppo consiliare della Dc al Comune si riunisce.
«Sconvolgente riunione» la definirà, dieci anni dopo, un testimone diretto, Leoluca Orlando, che così ricostruirà le posizioni espresse quel giorno dai suoi compagni di partito: «Si discutevano i contenuti di un documento che avrebbe dovuto esprimere sdegno e condanna, quand’ecco levarsi una voce, quella di un cianciminiano, ad opporsi all’uso della parola “mafia” nel testo. Giuseppe Insalaco [...] mi confidò il suo stupore: “Dopo l’uccisione di Costa è intollerabile non usare la parola mafia”. E poi, con quella puntina di cinismo che era parte del suo carattere, commentò: “Gli amici dei mafiosi hanno pudore di usare quella parola. In quest’aula c’è sempre qualcuno che deve rendere conto a qualche ‘don Peppino’ persino dell’uso delle parole; del perché, in un documento votato dal Consiglio comunale, si è parlato di mafia”».
I ricordi di Orlando
Al processo per l’assassinio Insalaco, Leoluca Orlando correggerà il suo ricordo. Il 29 settembre 1998, rievocando quella tesa riunione d’agosto dei consiglieri comunali democristiani, dirà alla Corte d’Assise: «Ricordo che Insalaco ebbe a dire: ma se adesso anche u zu Peppino vuole che si parli di mafia, come fanno questi a non capire che un documento politico non può non prevedere la parola mafia?».
La correzione non è indolore. Nella prima versione, Insalaco appare un democristiano poco obbediente, cinico forse, ma insofferente del servaggio imposto dai “don Peppino”.
Nella seconda versione diventa un disinvolto opportunista pronto a saltare sul carro dell’antimafia, sapendo di poter contare sulla benedizione dei boss. Le confidenze appartengono a chi le fa e a chi le riceve. Non c’è modo di controllarle. Soprattutto se chi le ha fatte è morto. Ma viene da chiedersi quale delle due versioni sia esatta.
Ha ragione il Leoluca Orlando del 1990, democristiano eretico che ha ingaggiato una lotta a viso aperto contro Lima e Andreotti, il sindaco della «Primavera di Palermo» che l’Italia intera guarda con ammirazione e con speranza? O è vera la versione dell’Orlando del 1998, ancora sindaco ma di minor smalto, uscito con clamore dalla Dc, fondatore della Rete, un movimento politico destinato a sfiorire rapidamente?
Sbaglierò, ma a me sembra che sia più vera la versione del 1990, ispirata da un ricordo più fresco dei fatti, più vicino. Da cronista, ricordo la data e il luogo in cui la Dc decise che la parola «mafia», fino ad allora taciuta, andava gridata a squarciagola: accadde nel febbraio 1983, ad Agrigento. Era il congresso regionale in cui, per accattivarsi i favori del nuovo segretario nazionale, Ciriaco De Mita, che aveva lanciato la parola d’ordine del rinnovamento, si mise all’angolo Vito Ciancimino, lasciandolo solo a presentare una sua lista di delegati. Ricordo ancora l’atmosfera di angoscia e di paura nell’albergo dove, nella notte, i delegati si chiudevano nelle riunioni di correnti, nascondendosi come congiurati.
E ricordo che alla luce del giorno, uno dopo l’altro, i democristiani di Sicilia andarono alla tribuna del congresso per esibire il proprio sdegno contro la mafia, pronunciando con voluttà la parola proibita. Impagabile spettacolo. Solo nella città di Pirandello si poteva mettere in scena una commedia simile.
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