Al telegiornale della sera Ernesta Crociata ascoltò un giornalista dire che suo figlio Giuseppe, Peppuccio, il bambino che aveva partorito negli anni della guerra, era morto ammazzato. Il giorno dopo il macellaio che forniva la carne alla famiglia presentò alla madre in lutto le sue più sentite condoglianze. Era Domenico Ganci, l’assassino.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
[…] Il primo verbale stilato dalla polizia dirà che la Vespa usata dai killer è stata trovata a due metri e dieci centimetri dalla fiancata destra dell’auto di Insalaco. Era appoggiata con il manubrio su una Fiat 124 parcheggiata a spina di pesce. «Appoggiata», si legge nel verbale: non «incastrata».
Uno dei caschi, di colore blu, è accanto alla Vespa; l’altro, bianco, viene trovato dall’altra parte della strada, sul marciapiede di via Cesareo, oltre via Leopardi. Delle valigie che Galliano sostiene di aver visto nelle mani di Insalaco, nel verbale non c’è traccia. Dietro il sedile di guida, viene trovata una borsa di stoffa che contiene indumenti e giornali. Quanto al portabagagli, non risulta che sul momento qualcuno abbia controllato se contenesse qualcosa.
E nessun verbale, né prima né dopo, parla di valigie. Nel giudizio della Corte d’Assise, la «affrettata quanto maldestra esecuzione [...] mise in pericolo l’intera cosca della Noce». È bizzarro che i giudici siano di questa opinione solo a voler considerare che la sentenza di primo grado risale al 19 aprile 1999, undici anni e tre mesi dopo l’omicidio. Se la cosca della Noce davvero fu messa in pericolo da due assassini pasticcioni, chi la salvò da ogni conseguenza per un periodo così lungo? E come mai i giudici non se lo domandano? Dalla relazione introduttiva del pubblico ministero al processo: «In via Giovanni Prati, all’altezza del civico 26, sotto una Fiat 126 di colore verde, la polizia giudiziaria rinveniva una pistola marca Smith & Wesson di colore nero con guanciolo di legno chiaro. Poco più tardi, sotto un’altra Fiat 126 parcheggiata all’altezza del civico n. 28 della stessa v. Prati, veniva rinvenuto un altro revolver marca Smith & Wesson, cal. 41 Magnum, con sei colpi nel tamburo inesplosi».
Via Prati è lunga una quarantina di metri. Per scrupolo di cronista, ho voluto controllare in una qualunque giornata d’inverno quante macchine possono parcheggiare lungo quella strada: ne ho contate diciannove, allineate lungo il marciapiede, sul lato che, ai killer in fuga, si prospettava come il destro; trenta sul lato opposto, parcheggiate a spina di pesce. Ci vuole molta fortuna per trovare una pistola finita sotto una macchina.
E ancora di più per trovarne due sotto due macchine diverse. La prima pistola, la 357 Magnum, l’arma che ha sparato, viene ritrovata a poche ore dall’agguato. Il ritrovamento della seconda pistola, abbandonata con i sei colpi nel tamburo, è davvero misterioso. Chi o che cosa abbia condotto la polizia a rintracciarla, è difficile dire. Al processo il dirigente della Squadra Omicidi della polizia, Biagio Agnello, dirà che la seconda pistola venne trovata «a qualche ora» di distanza dalla prima, «a seguito di altre segnalazioni». Chi siano stati i cittadini esemplari così solleciti da mettere la polizia sulle tracce della seconda pistola, né Agnello lo dice né alcuno glielo domanda.
Resta a verbale una sua affermazione: che quella 41 magnum lo aveva sorpreso, non aveva mai visto una pistola di quel calibro. Negli atti del processo risulta che fu un maresciallo a trovare l’arma. In aula non compare. È andato in pensione, non si riesce a rintracciarlo. I giudici si accontentano di sentire che la macchina della giustizia non sa trovare un pensionato dello Stato. Un peccato, perché sarebbe stato interessante capire come, in una sera d’inverno, e nell’affanno per un delitto appena accaduto – e che delitto: un ex sindaco ucciso a Palermo, per la prima volta nel Novecento – il maresciallo abbia avuto il talento di rintracciare la seconda pistola, infilata sotto una 126 in sosta, tra decine di macchine parcheggiate. E, soprattutto, come abbia avuto il sospetto, una volta rintracciata la prima pistola, che dovesse essercene un’altra. Ricapitoliamo: Domenico Guglielmini, detto Giovanni, un mafioso che non diventerà mai collaboratore di giustizia, porta con sé due pistole in via Cesareo quella sera.
Pare che sia una precauzione comune per un killer. Una delle due pistole, un revolver con sei proiettili nel tamburo, non spara. Ma viene gettata a terra, sotto un’automobile, a poche decine di metri dal luogo dell’omicidio. La pistola che non spara è l’arma che, nel giugno del 1983, sparò contro il capitano dei carabinieri Mario D’Aleo. In occasione di quel delitto la impugnava Domenico Ganci. Per quasi cinque anni l’arma è rimasta nell’arsenale della cosca della Noce, poi viene portata in via Cesareo, dove non spara ma viene gettata a terra. Perché?
Tracce di un delitto
In poche ore la polizia si trova squadernata davanti una quantità di materiale prezioso: ha il mezzo usato per l’agguato, ha le armi, ha i caschi – e uno in particolare, quello bianco, che secondo i testimoni era il casco indossato dall’uomo che ha sparato, contiene diciassette capelli. Si potrebbe ragionevolmente supporre che le indagini partano di slancio.
È esattamente quello che pensano i mafiosi. «Furono commessi errori molto pericolosi per noi» è il giudizio di Francesco Paolo Anzelmo, che fu convocato d’urgenza a Borgo Molara, a casa del suo capo, Raffaele Ganci, il giorno dopo il delitto. Questa è la lista degli errori secondo Anzelmo: sulla Vespa «c’erano sicuramente le impronte di Nino Galliano», nei caschi «potevano esserci capelli miei, capelli di Calogero, capelli di qualche altro perché erano cose che avevamo noi e quindi li usavamo noi», infine è andata perduta la pistola «che aveva sparato nel capitano D’Aleo».
Conclude il vice di Raffaele Ganci: «Se una situazione di questa l’avrei fatta io, già non ci sarei più, mentre diciamo la fece lui, è sempre il figlio e non è successo niente». Proprio niente, no: «Ci furono discussioni a non finire, un manicomio». Le discussioni cominciarono dal giorno successivo all’omicidio. Ecco il racconto di Antonino Galliano. Il 13 gennaio passa nella macelleria dei Ganci di via Lancia di Brolo, quella stessa in cui per la prima volta aveva sentito parlare del «disturbo» creato da Insalaco. Suo cugino, Stefano Ganci, gli ordina di presentarsi il pomeriggio a casa dello zio Raffaele che gli deve parlare.
Galliano capisce al volo che lo aspetta «una grossa lavata di capo», sa che non può evitarla. Dopo le 14 si presenta allo zio. C’è pure Domenico Ganci, convocato anche lui per render conto del disastro. Alla presenza del figlio, il patriarca striglia il nipote: lo «rimprovera in maniera energica», gli dice che non doveva dare retta a Mimmo, che non doveva eseguire i suoi ordini, che Mimmo ha fatto «di testa sua», che l’incarico di uccidere Insalaco era già stato affidato all’altro figlio, Calogero, e ad Anzelmo.
Galliano ascolta senza replicare, Mimmo tenta di difendersi: non ha trovato né Calogero né Anzelmo, ha capito che «il dottore Insalaco stava partendo», per questo ha deciso di agire. È un figlio che deve giustificarsi davanti a suo padre, in una famiglia di mafia che coincide con il vertice di una cosca. Ma perché la sua autodifesa abbia un senso, il dettaglio delle valigie è decisivo. Se Insalaco era in fuga, la fretta è stata ragionevole. Ma nulla dice che Insalaco fosse in fuga.
Stranezze
È strano che, nella scena della sfuriata del patriarca, manchi Guglielmini. È stato lui a commettere l’errore più grossolano sbarazzandosi delle pistole, una leggerezza incredibile per un killer di mafia. E suo è stato il comportamento più incomprensibile. Doveva uccidere un uomo, lo ha ucciso. Ordinaria amministrazione, per un assassino di vasta esperienza. L’uomo non ha reagito, nessuno ha reagito: perché quell’eccesso di emozione? Perché quel panico da ragazzini? O perché, allora, lo sforzo di lasciare un numero enorme di tracce? Di una strigliata a Guglielmini, non parla nessun pentito della cosca della Noce. Singolare impunità, che sembra non incuriosire nessuno fra quanti hanno indagato sulla vicenda. Ancora più singolare è che quell’incomprensibile leggerezza non impedisca a Guglielmini di far carriera.
Nel maggio del 1992 eccolo sulla scena della strage di Capaci: è Guglielmini – racconterà Giovanni Brusca – il mafioso incaricato di comprare lo champagne per brindare all’assassinio di Giovanni Falcone. Anche Galliano continuerà la sua carriera mafiosa, come se sulla sua reputazione il disastro dell’assassinio Insalaco non avesse lasciato alcuna macchia. E viene da dire che Raffaele Ganci deve nutrire una paradossale fiducia nell’efficienza delle forze dell’ordine e nell’intelligenza dello Stato. Questo spiega la sua collera contro il trio di maldestri assassini. È una fiducia di antica data.
Nel 1986 il capo dei Ganci viene arrestato mentre ha in tasca il telecomando del cancello principale e dell’ingresso privato della villa dove Totò Riina abita da un anno con tutta la famiglia. La stessa villa di via Bernini 54, nella borgata dell’Uditore, dalla quale il capo dei capi uscì, il mattino del 15 gennaio 1993, diretto a una riunione della commissione di Cosa Nostra, quando i carabinieri lo arrestarono.
Sette anni prima, catturato con il telecomando in tasca, Ganci temette a lungo di aver messo nei guai il suo capo e pensò che le forze dell’ordine potessero arrivare al numero 54 di via Bernini. Più ottimista del boss della Noce, Riina – che pure sarà stato subito avvertito della disavventura toccata a Ganci – se ne restò tranquillo nella villa e continuò ad abitarvi per anni. Avrà forse fatto cambiare la lunghezza d’onda del telecomando.
Esattamente come, dopo la cattura, fece smontare anche i termosifoni perché non restasse testimonianza alcuna dei suoi otto anni in quella villa, mentre – com’è noto – i carabinieri desistevano da ogni attività di vigilanza. Eppure la fretta nell’organizzare l’agguato deve avere una spiegazione. Per giustificarla, Domenico Ganci parla a suo padre delle valigie e inventa la favola di una possibile fuga di Insalaco. Galliano, assecondandolo, racconta che Insalaco posa le valigie in macchina.
C’è solo un terzo riferimento alle valigie di Insalaco: è nelle cronache pubblicate dal Giornale di Sicilia e da La Stampa la mattina dopo il delitto. «Pare che [Insalaco, N.d.A.] stesse per lasciare la città, nel portabagagli aveva alcune valigie» si legge sulla prima pagina del giornale palermitano il 13 gennaio. E anche: «Forse [i killer, N.d.A.] lo hanno tallonato da quando sotto casa aveva caricato le valigie in macchina». Aggiunge La Stampa: «Aveva molte persone da temere: quelle valigie in macchina fanno davvero credere che se ne stesse andando». Dieci anni dopo, la sentenza stabilirà che nessuna valigia venne trovata nella macchina dell’ex sindaco, solo una borsa con giornali e indumenti. Mimmo Ganci aveva una buona ragione per inventarsi un bagaglio più ingombrante, Galliano può essere stato tratto in inganno dal cugino.
Ma chi suggerì quella notizia falsa, la sera stessa del delitto, al quotidiano della città e all’inviato del giornale torinese? Quanto a Galliano, forse nell’ansia di escogitare una spiegazione convincente, sbaglia i tempi e così racconta che, quando Insalaco arriva con le valigie, gli assassini sono già nella macelleria, convocati da Domenico Ganci. Che doveva avere dunque altre ragioni per sbrigarsi. Quali? «Io non so che cosa vuole dimostrare» urla Raffaele Ganci, nella scenata del giorno dopo, descritta dai collaboratori di giustizia. Per Galliano, il gesto di suo cugino si spiega con l’ambizione, col bisogno di mostrare i muscoli.
Secondo la sua ricostruzione, con l’arresto di Raffaele Ganci, nel 1986, si era creata una spaccatura nella famiglia: Domenico, che era un «tipo molto pieno di sé, voleva dimostrare che lui era capace». Ma a chi doveva dimostrare le sue capacità, Domenico Ganci? Voleva forse convincere suo padre, che aveva indicato come killer di Insalaco l’altro figlio, Calogero, di essere l’assassino più bravo in famiglia? O voleva far vedere a Riina, che aveva ordinato l’omicidio, di essere il più abile nell’eseguirlo? Sperava forse, con la sua prova di forza, di liberarsi dallo scomodo condominio di potere con Anzelmo al comando della famiglia della Noce, la cosca favorita del capo di Cosa Nostra? Voleva garantirsi la successione al padre, o addirittura accelerarla? Che sia stato per orgoglio, per ambizione o per rivalsa, di certo la precipitazione di Domenico Ganci ha l’effetto di collocare l’omicidio in un momento strategico. L’8 gennaio 1988 il Consiglio superiore della magistratura si è riunito per nominare il nuovo capo dell’Ufficio istruzione di Palermo.
Si tratta di scegliere il successore di Antonino Caponnetto, lo straordinario regista del pool antimafia che ha costruito il maxiprocesso, ormai in procinto di rientrare nella sua Firenze. Caponnetto ha indicato come suo erede Giovanni Falcone, è sicuro che il Csm rispetterà quell’indicazione. Ma a sorpresa, all’ultimo momento, ecco farsi avanti un anziano magistrato con un’onorata carriera senza scosse. Si chiama Antonino Meli, è il presidente della Corte d’Assise che nel 1984 ha condannato i fratelli Greco per la strage Chinnici con una sentenza così debole da venire travolta in appello e cancellata in Cassazione.
Meli può vantare una lunga anzianità di servizio, Falcone la competenza – e una meravigliosa intelligenza, dote che in Italia è un sommo ostacolo a ogni possibile carriera. Il pronostico è incerto, ma Falcone è ragionevolmente convinto di farcela. Sette giorni dopo l’assassinio di Insalaco, il 19 gennaio, il Consiglio superiore della magistratura si pronuncia. Vince Meli con quattordici sì, dieci no, cinque astensioni. Dopo la strage di Capaci, Antonino Caponnetto dirà che Giovanni Falcone cominciò a morire quel giorno.
Il ricordo di Bianca Stancanelli
[...]Seppi dell’assassinio di Giuseppe Insalaco alle otto di sera, in una piazzetta romana tra il Pantheon e Montecitorio. Tornavo a casa dal giornale a piedi. Traversò di corsa la piazza un collega siciliano, Alberto Spampinato, che in quegli anni lavorava alla redazione romana de L’Ora. Gli feci un cenno allegro di saluto. «Hanno ucciso il sindaco di Palermo» mi lanciò al volo, continuando a correre. Il sindaco di Palermo era Leoluca Orlando. Provai un brivido di orrore. Non esisteva ancora il magico mondo di Internet, dove le notizie arrivano a te dovunque, ti raggiungono, ti inseguono, ti avvo
lgono. Corsi a cercare un televisore, un telegiornale, un televideo. Seppi così che il morto era Giuseppe Insalaco. «Ah, Insalaco» pensai. Ancora oggi ricordo con vergogna il mio sollievo. Anche sua madre lo seppe così. Al telegiornale della sera Ernesta Crociata ascoltò un giornalista dire che suo figlio Giuseppe, Peppuccio, il bambino che aveva partorito negli anni della guerra, era morto ammazzato. Il giorno dopo il macellaio che forniva la carne alla famiglia presentò alla madre in lutto le sue più sentite condoglianze. Era Domenico Ganci, l’assassino.
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