Martedì 12 gennaio 1988 è l’ultimo giorno nella vita di Giuseppe Insalaco. Su Palermo pesa un cielo grigio, senza pioggia. Sul Giornale di Sicilia l’oroscopo del suo segno, la Bilancia, somiglia a un malizioso avvertimento: «Tenete gli occhi ben aperti. Non rischiate se non avete fatto i debiti calcoli».
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
Martedì 12 gennaio 1988 è l’ultimo giorno nella vita di Giuseppe Insalaco. Su Palermo pesa un cielo grigio, senza pioggia. Sul Giornale di Sicilia l’oroscopo del suo segno, la Bilancia, somiglia a un malizioso avvertimento: «Tenete gli occhi ben aperti. Non rischiate se non avete fatto i debiti calcoli». In prima pagina, il quotidiano pubblica una corrispondenza da Corleone che molto dice delle timidezze e delle difficoltà della lotta antimafia.
È la storia di un professore di matematica che risulta aver accumulato un patrimonio personale di quattro miliardi di lire. Carabinieri e Guardia di Finanza sostengono che quella ricchezza è ingiustificata, accusano il professore di essere un prestanome di Riina. Lui nega e si difende: «I soldi li ho guadagnati dando lezioni private agli studenti di Corleone». I giudici della sezione Misure di prevenzione mostrano di credergli: niente sequestro, il patrimonio è salvo. In cronaca, l’ultima impresa del sindaco Orlando: è entrato nella gabbia delle tigri al circo Medrano, per la gioia dei bambini dei quartieri più poveri. Altre tigri continuano a sbranare la città.
La giunta comunale ha appena pagato ventidue miliardi di lire alla Lesca di Cassina, a saldo di un debito del 1974. E in Municipio ci si dispera ancora sulla manutenzione di strade e fogne. La Cosi (Cozzani & Silvestri), l’impresa che nel novembre del 1985 si è aggiudicata l’appalto offrendo un ribasso monstre del 25,69 per cento, pretende che il Comune versi sei miliardi in più della cifra concordata. Dietro la Cosi, si scoprirà col tempo, c’è Vito Ciancimino. Angelo Siino spiegherà divertito ai magistrati che, «con un gioco ben fatto», don Vito ha resuscitato «un’impresa in disarmo», la Cozzani & Silvestri appunto, e l’ha scaraventata nel gran gioco degli appalti per le manutenzioni di Palermo, per vendicarsi di Cassina che voleva farlo fuori dall’affare alleandosi con le cooperative rosse.
Chi sa se Siino ha confidato a Insalaco il trucco perfido di Ciancimino. Forse no. L’ex sindaco è ormai fuori da tutti i giochi, estraneo alle partite sotterranee del potere. Un uomo in disgrazia che tenta di mantenere le abitudini del passato, che non si rassegna a rinunciare alla vita brillante di un tempo. A metà mattina chiede alla sua compagna di andare a pranzo fuori. Aspettano che il figlio di lei esca da scuola, poi vanno a Bagheria, da don Ciccio, la trattoria più nota del paese. Ed è lì che Insalaco pronuncia quella strana battuta, «Quando avrò sessant’anni ti dirò chi sono veramente», che per anni continuerà a risuonare nella memoria della sua compagna. Il 12 dicembre 1997, ripetendo quella frase nell’aula della Corte d’Assise, Elda Tamburello concluderà: «Era un uomo sibillino».
Tornano in città nel pomeriggio, ognuno a casa sua. Insalaco non deve avere alcun sospetto se mezz’ora prima di morire, telefona da casa alla ex moglie; vuole passare a prendere suo figlio Luca, per ritirare con lui un computer mandato a riparare. Ma Luca non ha finito i compiti, il padre dice che è meglio che studi, andrà da solo al negozio.
Scende da casa, passa davanti alla garitta blindata della scorta di Falcone. Risale a piedi il marciapiede di via Notarbartolo, gira a destra su via Francesco Lo Jacono, passa davanti alla macelleria dei Ganci, si dirige verso la sua macchina, una Fiat 132 blu. Forse non bada neppure al Vespone bianco che parte non appena lui mette in moto e che lo segue.
A bordo, due giovani: entrambi portano il casco, ed è strano, per le abitudini palermitane. Insalaco percorre via Gioacchino Di Marzo, al primo incrocio svolta a destra su via Nunzio Morello; supera altri quattro incroci, poi svolta di nuovo a destra, su via Giovanni Alfredo Cesareo, una strada a senso unico.
Una macchina, una Opel, è ferma allo stop, all’incrocio con via Leopardi. La Fiat 132 di Insalaco le si accoda. Ed è allora che un giovane scende con un balzo dal Vespone, si avvicina allo sportello dal lato di guida, spara quattro colpi con una 357 magnum. Tre proiettili colpiscono Insalaco tra il collo e la testa, il quarto lo ferisce al braccio. Una perizia stabilirà che i primi proiettili sono stati esplosi da dietro in avanti, l’ultimo è quasi orizzontale – come se il killer si fosse mosso, avanzando, continuando a sparare. Insalaco cade in avanti, poi lentamente il suo corpo scivola di lato; libera dal freno, la sua macchina urta contro la Opel.
I killer abbandonano la Vespa, fuggono a piedi. Sulla pedana verrà trovata una piuma, tracce di fieno, trucioli di legno e sterco di gallina. Come se gli assassini fossero usciti da un pollaio. O da una stalla. Come animali. Dopo, è il solito inferno: folla di curiosi, impazzare di sirene, il traffico bloccato. Le prime due volanti della polizia arrivano alle 19.45. Cominciano i rilievi. Si ascoltano i testimoni. Viene interrogato l’uomo che guidava l’auto tamponata dalla macchina di Insalaco.
È un professore di liceo, non ha visto quasi niente. Ha sentito gli spari alle sue spalle. Ha avvertito l’urto della macchina, un urto debole, si è girato, ha notato due giovani che tentavano di fuggire su una Vespa e non ce la facevano a districarsi tra le macchine parcheggiate a spina di pesce, li ha visti fuggire a piedi «facendo molta attenzione a coprirsi il viso». Dei caschi, il professore non parla. Né sa descrivere i due assassini.
I testimoni oculari
Altri testimoni forniscono alla polizia notizie sull’agguato. La prima è una ragazza. Ha diciassette anni. Sta studiando, in una stanza al primo piano, in un palazzo di via Cesareo 33, qualche metro più indietro rispetto al luogo dell’agguato. Sente il rumore degli spari, si affaccia alla finestra, vede due persone scappare: uno lancia un casco integrale che alla ragazza, nella distanza, sembra bianco.
Dirà alla polizia che potevano essere alti 1,70-1,75 e di corporatura normale. Li giudica giovani dall’energia con cui correvano. Dall’altra parte della strada, oltre l’incrocio tra via Cesareo e via Leopardi, c’è un ragazzino di nemmeno quindici anni. Aiuta suo cognato che ha un chiosco di fiori all’angolo. Quando sente gli spari, è seduto in macchina, in una Fiat 126 parcheggiata su via Leopardi. Scende di corsa, vede un uomo con un casco in mano, in piedi accanto allo sportello di una berlina di colore blu, dal lato del guidatore.
Vede anche un altro uomo, dalla parte opposta della macchina. Vede che tenta di tirare su qualcosa, un «motore» (così a Palermo, per sineddoche, si definiscono scooter, moto e motorini). L’uomo in piedi accanto alla macchina, un tizio alto un metro e ottanta, una trentina d’anni all’apparenza, quell’uomo lì si avvicina all’altro, che è più basso e ha le mani sul manubrio della Vespa, e lo tira per il braccio. Poi, insieme, «con le braccia abbassate», l’uno vicino all’altro, attraversano via Leopardi e corrono giù per la prosecuzione di via Cesareo. Il professore tamponato dall’auto di Insalaco ha detto il contrario: che i due assassini si riparavano il volto con le mani. Accade spesso che i testimoni oculari si contraddicano. Un altro ragazzino ricostruisce frammenti della scena del delitto.
È l’aiutante benzinaio di via Cesareo. Ha quattordici anni. Alla polizia racconta di aver visto due uomini: uno con un casco bianco, accanto alla macchina, che sparava, dal lato del guidatore; l’altro dal lato opposto, con un Vespone bianco. Fuggono a piedi, quello del Vespone zoppica e correndo scivola. Poi buttano i caschi, tutti e due: li buttano mentre corrono. E girano in via Prati, la prima traversa a destra dopo l’incrocio con la via Leopardi.
C’è un piccolo mondo di ragazzini, nel cuore ricco di Palermo, in quella sera di gennaio, ragazzini che dovrebbero essere a casa, al caldo, e invece sono lì, a badare ai chioschi di fiori, alle pompe di benzina, alle salumerie, il piccolo mondo dei ragazzi sfruttati. E ci sono due adulti. Il primo è il benzinaio di via Cesareo.
È in salumeria quando sente quattro spari, si affaccia alla porta, vede due giovani correre, gli sembra che uno abbia gli occhiali da vista. C’è poi il proiezionista del cinema Ariston, che si trova in via Pirandello, due traverse più in là del luogo dell’assassinio. È un cinema di prima visione, quella sera danno Salto nel buio, regista Joe Dante, produttore Steven Spielberg, un fanta-thriller che racconta la storia di un pilota miniaturizzato iniettato per sbaglio nel corpo di un impiegato. Alle 19.30, all’inizio del secondo tempo, il proiezionista, un uomo di 42 anni, scende dalla sua cabina per andare a fare due chiacchiere con la cassiera. Sente sparare. Esce, si avvia verso via Cesareo, vede persone correre – donne, uomini, ragazzi.
Ne mette a fuoco due in particolare, che corrono verso via Prati. È mezzanotte quando il proiezionista entra negli uffici della Questura. Prima ha dovuto aspettare che finissero gli spettacoli, chiudere il cinema. Racconta che, dei due che correvano, uno lui l’ha visto rallentare su via Prati, chinarsi e buttare qualcosa sotto una macchina, forse una pistola. L’uomo con la pistola era alto un metro e settanta circa, indossava una giacca di montone chiaro, con il collo di pelliccia bianco, e aveva capelli ricci castani. L’altro era più basso, l’ha visto da lontano, non sa dire di più.
Dieci anni dopo le testimonianze cambiano
Dieci anni dopo, convocati come testimoni al processo, tutti cambiano versione. I ricordi sbiadiscono, è naturale, ma non dev’essere solo questo. Il ragazzino che vendeva fiori, ormai un giovane di ventiquattr’anni, dichiara di non ricordare più niente. «Ero piccolo» balbetta «ho avuto un’infanzia un pochettino particolare...» L’aiutante benzinaio, che torna da Ravenna per testimoniare, perché è lì che vive e lavora, non ricorda nulla neanche lui. «Avevo dodici, tredici anni: vedere tanto sangue, a quell’età, è stato un trauma». Gli rileggono la sua testimonianza e lui arriva a dire che da piccolo era «un po’ bugiardo».
In aula gli contestano che, quella sera di gennaio del 1988, disse alla polizia di aver raccontato tutto ciò che aveva visto a Toni il fioraio e a suo padre. Oh sì, questo lo ricorda, ma di Toni non conosce il cognome e papà è morto
Anche il proiezionista cambia versione. Se dieci anni prima aveva testimoniato di aver visto uno dei killer in fuga rallentare e chinarsi per buttare qualcosa, forse la pistola, sotto una macchina, al processo nega: «L’avrò detto, ma non l’ho visto». Sostiene di aver incontrato un ragazzino che gli ha raccontato del giovane in fuga e della pistola. Il pubblico ministero gli domanda perché allora disse d’averlo visto lui. «Magari per spavalderia». Aveva fatto mettere a verbale che il killer che aveva gettato qualcosa sotto una macchina indossava un giaccone di montone chiaro col collo di pelliccia.
In aula gli domandano: anche questi particolari glieli ha suggeriti il ragazzino? No, risponde, non me l’ha detto. E lei, allora, perché ha parlato del giaccone di montone, se davvero non ha visto quell’uomo? «Vabbè, sarà stato un caso». Sorrido leggendo le testimonianze, penso al dramma dell’oralità nei processi di mafia in città come Palermo. Non succede spesso che un testimone dichiari di aver raccontato frottole alla polizia, la sera di un delitto, per «spavalderia».
Poi incontro Ernesta Insalaco, che di quel processo non ha voluto perdere neppure un’udienza perché si parlava della morte di suo padre, e mi racconta il fastidio di dover cercare un posto, nel settore del pubblico, tra i parenti degli assassini, e lo stupore di vedere in gabbia, indicati come i killer, i volti che le erano noti: il macellaio che le serviva le fettine di vitello quando andava a fare la spesa con suo padre, nella macelleria girato l’angolo di casa, quell’altro che stava alla cassa... E capisco i silenzi dei testimoni, gli imbarazzi, l’arrampicarsi sugli specchi: perché una cosa è testimoniare nel chiuso di una stanza di questura, fidando nella discrezione della polizia; tutt’altra cosa è ripetere ciò che si è detto in un’aula di Corte d’Assise, con gli occhi dei mafiosi puntati addosso e, soprattutto, gli occhi dei parenti dei mafiosi che ti scrutano, dietro la transenna del pubblico, tutti in libertà.
E una cosa è raccontare di un delitto quando sembra un’impresa talmente maldestra da poter essere solo opera di balordi e tutt’altra cosa è parlarne quando diventa chiaro che lo ha eseguito la mafia di obbedienza corleonese, e parlarne dopo che quella mafia ha fatto saltare in un pezzo di autostrada per assassinare un giudice e ha bombardato un palazzo per ammazzarne un altro.
Tra i testimoni convocati al processo ne manca uno: il benzinaio che aveva detto d’aver notato sulla faccia di uno dei killer un paio di occhiali. È l’unico che abbia visto gli assassini corrergli incontro mentre, richiamato dagli spari, si affacciava alla porta della salumeria. Del terzetto che si riunisce per l’assassinio, il solo a portare gli occhiali è Domenico Ganci. Suo fratello Calogero sa che è stato lui a sparare a Insalaco.
Il racconto del pentito Galliano
La sentenza dirà che si è sbagliato. A smentirlo, del resto, è suo cugino, l’uomo dal casco blu, quello che guidava la Vespa, Antonino Galliano, che negli anni Novanta è diventato collaboratore di giustizia. Questa è la sua ricostruzione dell’agguato.
Le cinque del pomeriggio del 12 gennaio. Galliano è a casa di sua nonna, nella palazzina popolare di largo Mariano Accardo. Studia. È un giovane di 29 anni, iscritto alla facoltà di Agraria, fuoricorso. Non riuscirà mai a laurearsi. Nell’ottobre del 1986 è stato combinato uomo d’onore. La sua affiliazione è rimasta riservata per volere di suo zio, Raffaele Ganci.
Nelle intenzioni del boss della Noce, il nipote Galliano dovrà tenere i contatti con personaggi esterni all’organizzazione: il ragioniere Pino Mandalari, il commercialista Piero Di Miceli. Professionisti che hanno bisogno di avere a che fare con mafiosi che si presentino bene, non con un killer.
Non che Galliano sia tenuto lontano dalla linea del sangue. Prima d’essere ammesso in Cosa Nostra, ha partecipato al suo primo omicidio: aveva venticinque anni, gli hanno chiesto non di sparare, ma di guidare un Vespone con a bordo l’assassino; si è dimostrato bravo. Dopo quella prima volta, le missioni di fuoco sono toccate anche a lui. Dunque, martedì 12 gennaio, alle cinque del pomeriggio, Galliano riceve la telefonata di suo cugino, Domenico Ganci, che gli chiede di raggiungerlo subito nella macelleria di via Lo Jacono.
Galliano sale in macchina e va. In macelleria, con il cugino Mimmo, trova Domenico Guglielmini, un mafioso della famiglia di Altarello che tutti conoscono col nome di Giovanni u siccu. Guglielmini è un killer sperimentato. Ha 35 anni, moglie, tre figli e un impiego di copertura come operaio alle dipendenze del Comune. Il suo lavoro consiste nel riparare strade e marciapiedi.
Che chiamino proprio lui per sparare al sindaco che s’era giocato il posto sull’appalto per la manutenzione delle strade sembrerebbe una beffa. Ma Guglielmini, prima di essere imbarcato nel pattuglione dei precari assunti al Comune grazie a un provvidenziale decreto legge sull’emergenza Palermo, è stato dipendente della Lesca. Prendeva, cioè, un regolare stipendio dai Cassina.
E questo potrebbe essere un dettaglio interessante, ma sembra che, nelle indagini, nessuno ci abbia badato. Quando Galliano arriva dal cugino, Mimmo Ganci gli indica una macchina blu, «le vecchie ammiraglie che si usavano allora», ferma all’angolo tra via Gioacchino Di Marzo e via Lo Jacono. E gli ordina di seguire quella macchina guidando il Vespone bianco parcheggiato davanti alla macelleria. Guglielmini salirà dietro. L’ordine è secco: «Quando Giovanni ti dice di fermarti, tu ti devi fermare».
La Vespa bianca è per Galliano una vecchia conoscenza: è la stessa che aveva guidato quattro anni prima, per la sua prima missione di killer. E lavorare in coppia con Guglielmini è una consuetudine: insieme hanno ammazzato almeno altre due persone prima di essere convocati per uccidere Insalaco. Mimmo Ganci ha pensato a tutto, anche ai caschi: li consegna ai due. Dice Galliano: «Dopo pochi minuti vedemmo il dottor Insalaco che stava mettendo delle valigie nella macchina». Quando Insalaco parte, i due mafiosi in Vespa lo seguono; Mimmo Ganci si accoda, in macchina, col ruolo di staffetta.
Il percorso, nel traffico del tardo pomeriggio, si snoda tra le strade eleganti del centro. È l’orario di chiusura dei negozi, la gente torna a casa, c’è la solita confusione, auto in doppia fila, passanti. La macchina di Insalaco avanza lentamente. Quando si ferma su via Cesareo, dietro una Opel Kadett che aspetta forse di inserirsi su via Leopardi o di attraversare l’incrocio, Guglielmini ordina a Galliano di bloccare la Vespa, poi scende, raggiunge il finestrino del guidatore, spara quattro colpi in successione.
Insalaco crolla sul volante, la macchina scivola in avanti. Il killer torna verso la Vespa per fuggire, ma Galliano viene «preso dal panico» (parole sue), perde il controllo del mezzo, che scivola a terra; lo lascia andare e scappa, attraversa via Leopardi, arriva alla prima traversa sulla destra e si sbarazza del casco, lo butta in un cassonetto, o almeno così ricorda, e corre, corre alla disperata fino alla macelleria di via Lo Jacono.
Non si preoccupa di controllare se Guglielmini lo segue. I due si incontrano in macelleria e lì Guglielmini gli confessa di aver buttato anche lui il casco e perfino le pistole, gli domanda perché ha perso il controllo del motore. Galliano si giustifica: la Vespa si era andata a incastrare sotto le ruote di una macchina, impossibile tirarla su. Subito dopo arriva Domenico Ganci, si fa raccontare tutto, ascolta pazientemente. «Ci ha tranquillizzati e rincuorati» sostiene Galliano. E li manda via.
Galliano torna a casa con la stessa macchina con cui era arrivato. Il dettaglio più stridente di tutto il racconto è nella tranquillità della conclusione. I killer hanno abbandonato la Vespa sul luogo dell’agguato, hanno buttato via i caschi, lanciato per strada le pistole: si sono comportati come due sprovveduti, non come due soldati di mafia. Perché Mimmo Ganci li manda via senza un rimprovero, accettando con olimpica calma quel disastro?
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