Rita è una ragazzina di diciassette anni. Lei e Piera Aiello spezzano il vincolo di omertà della famiglia. Paolo Borsellino le ascolta. Rita è fragilissima, per raccontare il mondo mafioso ha dovuto abbandonare tutto. Famiglia, amici, fidanzato. Vengono allontanate dal loro paese, Borsellino sente ogni giorno Rita, appena può la va trovare.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attentato di via d’Amelio a trent’anni di distanza.
Con Rosario Spatola, c’è qualcun altro che decide di vuotare il sacco. È Giacoma Filippello, la donna di Natale L’Ala, il boss di Campobello. Lo vede morire e consuma la sua vendetta raccontando tutto quello che sa a Paolo Borsellino.
Un anno dopo, sono due donne che si presentano al procuratore capo della repubblica di Marsala. Sono cognate. Piera Aiello e Rita Atria. Sono tutte e due di Partanna, in fondo alla provincia di Trapani. Piera è la moglie di Nicola Atria, un mafioso ucciso dai boss rivali. Anche il padre di Nicola – Vito – è morto ammazzato tanto tempo prima. Rita è figlia di una vittima e sorella dell’altra.
È una ragazzina di diciassette anni. Lei e Piera spezzano il vincolo di omertà della famiglia. Paolo Borsellino le ascolta.
Rita è fragilissima, per raccontare il mondo mafioso ha dovuto abbandonare tutto. Famiglia, amici, fidanzato. Vengono allontanate dal loro paese, Borsellino sente ogni giorno Rita, appena può la va trovare.
Una settimana dopo il 19 luglio 1992 Rita Atria, una «picciridda» che aveva creduto nello Stato, decide che non ha più senso vivere. Si lancia dal settimo piano di un palazzo di Roma, sulla Tuscolana, dove è nascosta.
Si pente con Paolo Borsellino anche Vincenzo Calcara, uomo d’onore della famiglia di Castelvetrano. Il procuratore lo incontra nel carcere di Favignana. Il mafioso lo abbraccia e gli dice: «Mi avevano incaricato di ucciderla. Con un fucile di precisione». Se non avesse trovato lui, Calcara aveva l’ordine di far fuori uno dei suoi «ragazzi» di Marsala, uno dei giovani sostituti al suo fianco.
Paolo Borsellino chiama il ministero e fa assegnare la scorta a tutti. Vuole dare subito la sua blindata ad Antonio Ingroia, quello che si muove più per le indagini, che si sposta, viaggia. Ingroia è il più esposto. Anche Marsala adesso è come Palermo. Un fortino assediato.
«Mi piacerebbe conoscere Borsellino», mi dice Giorgio Bocca. Dopo qualche giorno è in Sicilia. Alloggia in una bella stanza sul mare di Villa Igiea, un pomeriggio un taxi lo porta in pochi minuti a casa del procuratore. Stanno insieme per quattro ore. Bocca ne rimane incantato. Mi racconta tutto a cena. Entriamo in un ristorante di Mondello e mentre ci avviciniamo al tavolo, qualcuno mi ferma. Ufficialmente lo spione è in polizia, ma tutti in città sanno che lavora per i «servizi».
Saluta e lancia il suo avvertimento: «Ne avevano cose da dirsi oggi il giudice Borsellino e il dottor Bocca eh…». Sapeva già dell’incontro. Tenevano d’occhio lui o il procuratore. O tutti e due insieme. Glielo racconto. Lo ricorderà anche nel libro che sta scrivendo, L’Inferno, che uscirà un anno dopo. Come scriverà anche quello che mi dice quella sera a cena, fra un polpo bollito e i ricci di mare.
«Paolo Borsellino è uno che non parla l’italiano del potere ma dei provinciali che l’hanno studiato come una lingua straniera e ne hanno fatto qualcosa di essenziale, di scarno, con pochi aggettivi e nessuno eclatante, un italiano che va dritto al cuore delle cose con evidente fastidio per i ghirigori e i salamelecchi»
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