Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, tratteremo il tema del caporalato e del lavoro che diventa schiavitù, arricchendo padroni e padroncini.

Un diffusa retorica continua ad affermare che sfruttamento, caporalato e mafie siano fenomeno tipici di un capitalismo arretrato che ispira e si manifesta solo nelle aree economicamente più arretrate del Paese. È una tesi sbagliata. Inchieste, indagini e ricerche sul campo da anni rilevano il degrado sistemico che caratterizza il mercato del lavoro e all'interno di questo in particolare (non in via esclusiva) per coloro che provengono da altri paesi. Il Veneto, espressione di un'imprenditoria che viene in genere sempre descritta come sana e pulita, quasi a rimarcare un’antropologia politica distinta dal resto del Paese, è anch'esso caratterizzato dalla persistente presenza di sistemi produttivi fondati sullo sfruttamento, sull’emarginazione, sulla ricattabilità e fragilità imposta dei lavoratori e delle lavoratrici. All’interno di questa economia non mancano clan mafiosi che da anni ne hanno fatto ricovero ed espressione di loro interessi e pratiche criminali. Il 26 luglio scorso l’ennesima drammatica conferma.

È accaduto infatti nel Padovano ed è venuto alla luce grazie all'inchiesta condotta dai Carabinieri di Cittadella (Padova) e dal Nucleo Carabinieri Tutela Lavoro di Venezia, assieme al Nucleo operativo di Mestre (Venezia), che ha dato esecuzione a nove ordinanze di custodia cautelare in carcere ad altrettanti cittadini pakistani, accusati di lesioni, rapina, sequestro di persona, estorsione e sfruttamento del lavoro. Oltre a questi sono stati condotti agli arresti domiciliari per sfruttamento del lavoro anche due dirigenti di un'importante azienda padovana, ossia la notissima Grafica Veneta, di Trebaseleghe, famosa per la stampa di best seller, come la saga di Harry Potter o la biografia di Barack Obama. Gli arresti domiciliari sono stati dati all’amministratore delegato dell'azienda padovana, il 43enne Giorgio Bertan, e al 60enne Giampaolo Pinton, direttore dell’area tecnica. Indicativo è il fatto che molti libri pubblicati dalla stessa azienda padovana riguardano inchieste, spesso anche pericolose, di giornalisti e saggisti condotte proprio sul caporalato, le mafie, lo sfruttamento e su diffuse e gravissime pratiche illegali e interessi criminali.

Lo scrittore Maurizio Maggiani dichiara di provare un senso di schifezza per la possibilità, piuttosto alta, di aver pubblicato i suoi libri che raccontano di istanze libertarie e di un desiderio mai domo di giustizia sociale e di rivoluzione, mediante il lavoro di lavoratori schiavizzati, umiliati al punto da vedere violati i loro diritti fondamentali, obbligati al silenzio e al lavoro forzato. Una rabbia e frustrazione che si comprende bene.

L’inchiesta su “Grafica Veneta”

Evidentemente al capitale interessa solo la vendita dei suoi prodotti e non i contenuti, vagliati solo in relazione al loro appeal commerciale ma incapaci di condizionare le politiche aziendali che non si fanno problemi a sfruttare quando questo significa fare profitto. La cosa paradossale, tra le altre, riguarda il fatto che questa inchiesta denuncia tutta l’ipocrisia di quelle voci d’impresa che negli ultimi mesi hanno denunciato la difficoltà nel reperire manodopera per via di una gioventù svogliata, pigra, incapace di fare i giusti sacrifici. Salvo poi scoprire che dietro ai sacrifici richiesti da una parte del sistema imprenditoriale, anche in Veneto, c’è caporalato, sfruttamento, una politica di subappalti che finiscono col violare i diritti umani e del lavoro di uomini e donne spesso provenienti, come nel caso in questione, dall'altra parte del mondo. Gli operai impiegati, in questo caso, erano stati assunti con regolare contratto mediante una società di lavoro interinale. Nonostante la loro regolarità data dalla disponibilità di un regolare contratto di lavoro e di un regolare contratto, erano ugualmente sottoposti a turni di lavoro asfissianti, costretti a lavorare fino a 12 ore al giorno, senza ferie e tutele.

Ancora una volta lo sfruttamento e il caporalato si nascondevano nelle pieghe di una formalità che fungeva da copertura di pratiche vessatorie che violavano la dignità del lavoro. Gli operai, tutti di origine pakistana, erano anche costretti a versare ai fornitori di manodopera – controllata da nove pakistani – una parte dello stipendio e a pagarsi l'affitto in case dell’organizzazione, ammassati fino a 20 persone per appartamento. Non è peraltro il primo caso di questo specifico fenomeno. Nel Pontino ad esempio funzionano da anni gli stupendi yo-yo, ossia formalmente correttamente corrisposti ai braccianti immigrati sui loro conti correnti, spesso postali, e poi però in parte restituiti ai padroni, prelevando agli sportelli bancomat cifre che variano tra i cento e i duecentocinquanta euro nei giorni successivi a quelli del bonifico inviato. Insomma tutto formalmente in regola e nel contempo tutto realmente squallido. E come in altre situazioni, proprio gli operai pakistani hanno cercato di reagire a questa prepotenza, subendo reazioni violente da parte dei loro aguzzini. Sono stati infatti letteralmente immobilizzati, picchiati, legati, intimiditi e minacciati.

Ma perché i domiciliari ai due dirigenti dell'azienda padovana? Secondo la Procura di Padova, i due erano a conoscenza della situazione di illegalità e dei metodi violenti usati dall'organizzazione per soggiogare e intimidire i lavoratori. Una consapevolezza che indica una corresponsabilità. Essi inoltre, ancora secondo l’accusa, avrebbero cercato di eludere i controlli di sicurezza. L’indagine era partita il 25 maggio 2020, dopo il ritrovamento lungo una strada locale di un operaio pakistano con le mani legate dietro alla schiena, esattamente come uno schiavo dell'Alabama nell'Ottocento, mentre altri suoi connazionali sono finiti all'ospedale di Padova. Tutti lavoravano alla Grafica Veneta ed erano dipendenti della “B.M. Services” di Lavis (Trento), specializzata nel confezionamento di prodotti per l'editoria, di proprietà di due loro connazionali con cittadinanza italiana, padre e figlio. Alcuni operai peraltro si erano pure rivolti a un sindacato, ma sono stati scoperti, e anche in questo caso come in altri, puniti e probabilmente malmenati.

Il presidente di Grafica Veneta, Fabio Franceschi, ha afferma che la sua azienda «era del tutto all'oscuro di quanto sembrerebbe emergere dall'inchiesta, e del resto l’oggetto della contestazione ai suoi funzionari riguarda solo ed esclusivamente un asserito ostacolo all'indagine, ostacolo che non è mai stato posto dalla società, che intende invece collaborare con le forze dell’ordine e la magistratura per il ripristino della legalità in primis e quindi della verità». Sarà il processo ad accertare la verità dei fatti. Intanto si può affermare che questo caso non è certo il primo. Sono numerosi i fenomeni di sfruttamento e caporalato che investono il Veneto e che ne fanno avamposto nordico dello sfruttamento e delle agromafie in Italia.

Altri episodi nel Nordest

A novembre del 2020, ad esempio, i Carabinieri del Gruppo Tutela del Lavoro di Venezia hanno eseguito nelle province di Verona e Vicenza tre misure di custodia cautelare emesse dal Gip presso il Tribunale di Verona, nei riguardi di un cittadino marocchino, un albanese e una donna italiana, accusati di associazione per delinquere finalizzata allo sfruttamento di lavoratori. I militari hanno accertato lo sfruttamento di decine di cittadini marocchini impiegati, anche senza contratto, in aziende agricole delle province di Vicenza, Verona e Padova, ormai precipitati in stato di bisogno, impiegati nelle campagne anche 12 ore al giorno a fronte di paghe irrisorie. Un aspetto assai interessante riguarda la donna italiana coinvolta, che altro non era se non la collaboratrice di uno studio commercialista, la quale come consulente del lavoro consentiva alla cooperativa di evadere gli oneri contributivi per i dipendenti e di nascondere le evidenze di un sistema fondato sull'umiliazione e lo sfruttamento.

A novembre del 2019 si scoprì invece un giro di subappalti, anche in questo caso, e di sfruttamento che partendo proprio dal Veneto coinvolgeva molte altre regioni italiane. Ad indagare e a scoprire questo sistema è stata la Guardia di Finanza di Venezia che è intervenuta con circa 80 perquisizioni in Veneto, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Marche, Campania, Puglia e Sicilia in 19 imprese del settore della cantieristica navale affidatarie di lavori per conto di Fincantieri. Fu inoltre posto agli arresti domiciliari un bangladese e posto un sequestro preventivo di oltre 200.000 euro per sfruttamento della manodopera. L’accusa è, a vario titolo, di sfruttamento della manodopera, corruzione tra privati, dichiarazione fraudolenta ed emissione di fatture false.

Andando ancora indietro si può ricordare nel 2018 i circa mille operai provenienti soprattutto dalla Romania, dall’Ucraina, dalla Repubblica Ceca e dalla Polonia, vittime di un'organizzazione criminale vicina a Cosa Nostra e alla Camorra che li sfruttava come muratori o carpentieri nei cantieri di mezza Italia. Quest’organizzazione fu smantellata ai primi di luglio del 2018 dalla Dia del Veneto insieme al nucleo di Polizia Tributaria delle Fiamme Gialle veneziane che scoprirono la sua capacità di operava attraverso diverse società fittizie, delle scatole vuote in sostanza, che fungevano da agenzie di collocamento e che assumevano a distacco le maestranze specializzate, impiegandole in ditte edili e fabbriche metalmeccaniche del Veneto e del Friuli ma anche della Lombardia, dell’Emilia Romagna della Toscana e della Puglia. Le mafie ovviamente fanno parte del “pacchetto”.

Le mafie in Veneto

Il centro di documentazione ed inchiesta sulla criminalità organizzata in Veneto da anni monitora e denuncia la presenza e gli affari di clan impegnati in diversi settori, compreso quello agricolo. Il centro studi ricorda che: “...a Eraclea è nato e ha prosperato quel clan dei casalesi che ha messo insieme il know how mafioso con le competenze professionali di imprenditori, commercialisti, avvocati e funzionari di banca del Veneto orientale, che non vedevano l’ora di trovare le scorciatoie della criminalità organizzata per “far schei”. Per la prima volta, dunque, con Eraclea non siamo più in presenza di “importazione” di malavita, come ai tempi di Felice Maniero, quando i soggiornanti obbligati sono stati portati in Veneto ad “insegnare” i trucchi del mestiere, ma di genesi in loco dell’organizzazione criminale. Che si fa forte di un ambiente che non solo tollera, ma incoraggia il malaffare.

Così Luciano Donadio tra Caorle, Eraclea e Jesolo era arrivato a controllare 65 cantieri contemporaneamente con gli uomini della sua banda. Ma il processo contro il clan dei casalesi di Eraclea è solo uno dei tanti. C’è il processo al clan Bolognino che riciclava tonnellate di euro al Nord grazie a imprenditori compiacenti; poi il processo Aemilia alla cosca Grande Aracri che aveva forti interessi anche in Veneto per non parlare dei Giardino o dei Multari. Insomma per dirla in due parole, dal lago di Garda fino a Chioggia, da Venezia fino a Caorle non c’è posto che non debba fare i conti con mafia, camorra e ’ndrangheta”.

E ancora, in modo condivisibile, ricorda, con riferimento alle agromafie, il caso: “della cooperativa veronese New Labor gestita di fatto da Gaetano Pasetto assieme al commercialista crotonese Leonardo Villirillo, personaggio che a sua volta compare tra le carte dell’inchiesta Aemilia sulla ‘ndrangheta cutrese nel nord Italia, dove viene accreditato come un «personaggio in diretti rapporti con il boss Grande Aracri Nicolino e soprattutto imputato nell’inchiesta Grimilde della magistratura antimafia di Bologna sulla cosca di ‘ndrangheta attiva nel piacentino. La New Labor, così come la Geoservice, erano due cooperative di intermediazione di manodopera amministrate da Gaetano Pasetto che, tra il Veneto e la Toscana, fornivano squadre di braccianti per diverse aziende agricole veronesi non coinvolte nell’inchiesta. Gaetano Pasetto, secondo le carte dell’inchiesta il cui impianto è stato confermato dalla sentenza di condanna, era a capo di un “collaudato sistema di reclutamento utilizzo e assunzione di lavoratori di origine rumena la cui manodopera viene destinata al lavoro agricolo preso terzi in condizioni di sfruttamento approfittando del loro stato di bisogno” e utilizzando “minacciosi metodi di sorveglianza”.

Il metodo era semplice: i braccianti ricevevano 500 euro al mese “come acconto per le proprie spese e per pagare l’affitto alla cooperativa” e solo dopo sei mesi consecutivi di lavoro ricevevano mille euro e due settimane di ferie non retribuite per tornare in Romania o in Albania. I braccianti, inoltre, dovevano attendere un anno prima che Pasetto “concedesse”, sotto forma di conguaglio, il resto dei soldi. I lavoratori non vedevano le buste paga che comunque erano falsate. Ricevevano 4 o 5 euro all’ora per 11 o 12 ore quotidiane e solo a chi sottostava alle sue regole. In più pagavano 40 euro di affitto per la stanza messa a disposizione dalla cooperativa. Villirillo, fino al suo arresto nel giugno dell’anno scorso, è stato molto attivo in Veneto come consulente di diverse società controllate da famiglie ritenute vicine ad ambienti criminali. Insomma un personaggio di un certo spessore che viene frequentemente contattato da Pasetto per risolvere i mille impicci burocratici che capitavano. Qualcosa di più di un consulente verrebbe da pensare leggendo le carte. Gli “impicci” che incombono sugli affari di Pasetto derivano anche dal fatto che la cooperativa dal 2016 non era in regola con i contributi per oltre 480mila euro pur avendo prodotto documenti falsi attestanti la regolarità fiscale e assicurativa alle varie ditte per cui lavorava”.

La stessa Commissione parlamentare antimafia in missione in Veneto nel luglio del 2019 ha denunciato, mediante il suo presidente Nicola Morra, l’attivismo delle mafie in Veneto quale “network di servizi” nell’intermediazione di manodopera e nello specifico nel bracciantato. Altro che sistema pulito e impenetrabile.


 

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