Il motivo per cui Brusca non era riuscito a colpire in pieno l’auto su cui viaggiava il giudice insieme alla moglie va ricercato in un fattore imprevisto: in quegli istanti sulla Fiat Croma si stava verificando l’episodio delle chiavi disinserite dal quadro, che aveva causato il rallentamento dell’automobile guidata in quel momento dal dottor Falcone
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, tocca al racconto della strage di Capaci, in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta: Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo.
Sull'esplosione l’unico contributo che ha offerto l’istruttoria dibattimentale è costituito dalla deposizione di Giovanni Brusca, che ha svelato di aver azionato la levetta solo alla terza sollecitazione di Gioè, che evidentemente aveva ritenuto già da prima che fosse stata raggiunta dalle macchine la posizione utile per provocare un’efficace esplosione.
Ora bisogna tenere presente che secondo La Barbera, Gioè era colui che interloquiva nel corso della telefonata durata 325 secondi: deve ritenersi allora che Brusca, collocato accanto a Gioè, avesse la trasmittente in mano e disponesse del cannocchiale.
Esaminando le dichiarazioni di Brusca parrebbe, ad una prima analisi, che vi fosse stata esitazione, perchè Gioè, secondo il suo racconto lo avrebbe incitato per ben tre volte a dare il segnale, e lui, di contro non si sarebbe mosso se non dopo l’ultima sollecitazione. Egli, infatti, aveva voluto essere sicuro che l’esplosione coinvolgesse la seconda macchina, quella bianca, sulla quale sapeva viaggiare il giudice: l’esitazione si spiega perchè Brusca per ottenere tale effetto, aveva intuito che doveva aspettare di più rispetto a quanto non facesse durante le prove di velocità, perchè Gioè gli aveva sicuramente comunicato la velocità delle macchine. Gioè quindi lo incitava perchè, ad occhio nudo non poteva cogliere con precisione la velocità con cui le macchine si avvicinavano al cunicolo, ma vedeva solo che le macchine genericamente stavano raggiungendo il punto ove era stata collocata la carica: era stato corretto pertanto da parte di Brusca aspettare, perchè solo in questo modo sarebbe stato sicuro che l’esplosione avrebbe centrato in pieno la macchina che gli interessava.
Così però non era stato, perchè come si è visto nella parte introduttiva della presente trattazione, solo la prima Croma era stata investita dall’esplosione, mentre la seconda era stata colpita dai riflessi dell’onda di urto provocata dalla detonazione della carica esplosiva.
E Falcone tolse le chiavi dal cruscotto
Il motivo per cui Brusca non era riuscito a ottenere l’effetto desiderato va ricercato in un fattore imprevisto, dovuto al fatto che in quegli istanti sulla Fiat Croma si stava verificando l’episodio delle chiavi disinserite dal quadro, che aveva determinato un rallentamento della marcia dell’autovettura, per cui, quando Brusca aveva azionato la levetta si era trovato spiazzato, perchè l’auto guidata dal dott. Falcone, che avrebbe dovuto trovarsi secondo i suoi calcoli più avanti, era rimasta invece indietro per effetto del rallentamento dovuto al disinserimento delle chiavi dal cruscotto. Se tale episodio non si fosse verificato, la seconda macchina sarebbe probabilmente stata investita da un’onda d’urto di intensità analoga a quella che aveva colpito la prima.
Le argomentazioni esposte in ordine a quanto era accaduto nel momento in cui si era proceduto all’azionamento della levetta ben si armonizzano con i tempi tecnici impiegati dal segnale per pervenire alla ricevente: va infatti riportato che il tempo necessario all’impulso elettrico per provocare l’interruzione del circuito è dell’ordine di grandezza di 1/4-1/2 millisecondo, per cui, tenuto conto anche della distanza che il segnale inviato dalla postazione a monte doveva coprire, il tempo impiegato, nel complesso, risulta ben compatibile con la sequenza temporale indicata dall’imputato.
Superato così il momento dell’esplosione, era cominciata per tutti gli operatori la fase del rientro, preceduta, per il gruppo appostato sulla collina dalla distruzione degli oggetti materiali che erano serviti alla realizzazione dell’attentato nella sua ultima fase, e cioè il cannocchiale, la trasmittente ed il piedistallo, che come al solito erano stati distrutti da Battaglia.
Brusca si era diretto allora con la Renault Clio di Biondino verso la casa di Guddo, La Barbera era andato a prenderlo al parcheggio, ed insieme si erano diretti verso Altofonte, dove erano stati raggiunti da Gioè e Di Matteo.
Ferrante prima aveva accompagnato Biondo a casa, poi se n’era andato in P.zza San Lorenzo, dove aveva incontrato un suo conoscente, Pietro Cocco, con cui si era intrattenuto per crearsi un eventuale alibi.
Tale circostanza, cioè l’incontro con il Cocco, è stata riscontrata in dibattimento in esito alla deposizione del predetto, che ha confermato l’episodio narrato dall’imputato.
E’ possibile poi, in base all’esame dei traffico telefonico evidenziato nei tabulati, trovare traccia documentale dei contatti fra Brusca e La Barbera: il primo è registrato alle 18.39, allorchè Brusca aveva chiamato La Barbera, verosimilmente per dirgli di andarlo a prendere da Guddo. Successivamente, alle 19.49, La Barbera aveva richiamato Brusca, ed è verosimile che questa fosse la telefonata nella quale egli, preoccupato del ritardo di Brusca, lo aveva chiamato per avere spiegazioni, e aveva capito quindi di aver sbagliato il posto dell’appuntamento. Brusca quindi lo aveva richiamato alle 19.53, alle 19.55, e alle 21.03, mentre La Barbera gli aveva telefonato ancora alle 20.06 e alle 20.15: in definitiva si tratta di telefonate probabilmente aventi ad oggetto questioni relative alla localizzazione dell’appuntamento per prelevare Brusca dalla villetta di Guddo. Quel che può affermarsi con relativa certezza è che i due si erano incontrati dopo le 20.15, ed è quindi da tale orario in poi che si erano messi dunque in moto per tornare ad Altofonte. In ordine allo sviluppo della serata è possibile registrare nella sostanza un’apprezzabile convergenza fra le dichiarazioni di Brusca, Di Matteo e La Barbera, che rende pertanto superfluo soffermarsi partitamente su ogni singolo passaggio. Quel che occorre sottolineare, invece, è il rilievo che assume la riunione a casa di Girolamo Guddo, sull’esistenza della quale hanno concordato Brusca e, sia pur con una certa fatica, Salvatore Cancemi.
Si tratta in pratica della riunione che aveva chiuso la fase esecutiva dell’attentato, che aveva visto la presenza, oltre che di Brusca e Cancemi, anche e soprattutto, dei capi, come Salvatore Riina e Raffaele Ganci, nonchè di altri rappresentanti di spicco di altri mandamenti, quali Salvatore Biondino e Michelangelo La Barbera, riunione durante la quale tutti aspettavano che la notizia della strage venisse data in televisione per commentare le gesta compiute.
Ed è proprio raccontando di questo accadimento che Cancemi e Brusca si sono sforzati reciprocamente l’uno di dipingere l’altro come il mostro che “ aveva gioito per la notizia della morte del giudice” o , dall’altro lato, come colui “ che aveva sputato sulla televisione” alla notizia della morte di Giovanni Falcone.
Con riferimento a fatti successivi alla strage, l’elemento più importante che occorre sottolineare per la rilevanza dell’apporto probatorio che fornisce alla ricostruzione degli eventi, è la convergenza che si ricava dalle dichiarazioni degli imputati, segnatamente La Barbera, e le deposizioni di tutti i testi che in veste di funzionari di polizia giudiziaria si sono occupati del covo di via Ughetti.
Che detto immobile fosse stato occupato fra gli altri anche da Gioè e La Barbera, lo si evince dal fatto che tale circostanza è stata riscontrata oggettivamente perchè gli appartenenti alla Dia hanno riferito di aver visto Gioè affacciarsi alle finestre dell’appartamento durante il periodo in cui si svolse l’appostamento, periodo che temporalmente è coincidente con quello indicato dall’imputato.
Quel che rileva in questa fase è l’ammissione, da parte dell’imputato, dell’effettivo svolgimento della conversazione con Gioè relativa alla localizzazione di Capaci come il luogo dove essi realizzarono “l’attentatone”, come risulta documentato dal tenore della relativa intercettazione ambientale documentata in atti.
Gioè fermato dai carabinieri
Con riferimento poi alla posizione di Antonino Gioè, merita segnalazione la convergenza delle deposizioni di Di Matteo, La Barbera, ed in ultimo di Brusca, sulla questione della predisposizione dell’alibi di Antonino Gioè. Tutti hanno concordato sul fatto che Gioè aveva raccontato ai Cc, che lo avevano sentito poco dopo la strage, che aveva trascorso i momenti immediatamente precedenti all’eccidio in compagnia del geometra Di Carlo, che era stato invitato dal Gioè a confermare tale versione.
Brusca poi si è inserito su tale scia, riferendo che era sua intenzione approfittare di tale alibi, per via del fatto che le contestazioni che avrebbero potuto muovere a lui sarebbero state le stesse ascritte al Gioè, posto che i due erano insieme appostati sulla collina al momento dell’esplosione.
Orbene a fronte di tale ricostruzione, va posta la deposizione del geometra Di Carlo, escusso alle udienza dibattimentale del 25 ottobre 96, dalla quale possono trarsi numerosi spunti che avvalorano le dichiarazioni degli imputati chiamanti in correità: innanzitutto, Di Carlo ha affermato di essere stato sentito dai Carabinieri di Capaci il 24 maggio 92, e quindi subito dopo l’evento delittuoso, con ciò confermando la circostanza che gli investigatori vollero sentirlo subito dopo Gioè, per controllare dunque tempestivamente se l’alibi proposto da questi fosse fondato o meno. Si segnala poi che il teste ha ammesso di conoscere da tempo il Gioè, e di non essere in grado di collocare con precisione il giorno in cui avvenne l’incontro con il predetto, su cui si era concentrata l’attenzione degli investigatori. A riprova di tale circostanza si deve considerare che, sulla base delle rivelazioni degli imputati chiamanti in correità, l’episodio a cui faceva riferimento Gioè per precostituirsi l’alibi non era infondato in radice, ma si era effettivamente verificato in quel periodo, per cui l’unica cosa che si richiedeva al Di Carlo era trasporre un evento vero ad un giorno diverso da quello in cui realmente si era verificato, cioè al 23 maggio.
Il dato che però costituisce l’elemento di maggiore perplessità in ordine alla deposizione del teste risiede nelle oscillazioni delle affermazioni relative alla fissazione dell’orario dell’incontro con Antonino Gioè, che è il miglior indice per arguire che la titubanza del Di Carlo è stata frutto del timore di ripercussioni personali ad opera di quella parte di persone vicine a Cosa Nostra, gravitanti nel gruppo di Altofonte, non ancora colpito da provvedimenti restrittivi.
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