Il 19 gennaio 1988 in quattordici scelgono Meli e in dieci Falcone come consigliere istruttore del Tribunale di Palermo. La bocciatura è trasversale. «Se non lo fermavamo, ce lo trovavamo fra sei mesi presidente della Cassazione», dicono a Palazzo dei Marescialli dopo il voto. «Sono un uomo morto», confida Giovanni Falcone ai pochi amici che gli sono rimasti.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.
Dopo quattro anni e quattro mesi, il consigliere istruttore Antonino Caponnetto lascia la Sicilia. È la prima volta che qualcuno vede piangere Giovanni Falcone. Caponnetto va in pensione e, per molti, l’obiettivo è uno solo: distruggere il pool, cancellare per sempre quella «struttura di potere» nata a Palermo per rinchiudere i boss dietro le sbarre. La mafia è finita. I giudici devono rientrare nei ranghi. Basta con i dibattimenti con centinaia di imputati, basta con il protagonismo giudiziario.
Ci vogliono prove e non «teoremi». Le parole d’ordine si inseguono in Sicilia e in Italia.
Dopo la «movida» antimafia è ora di normalizzare Palermo. Ricacciarla nel suo passato oscuro. A nulla valgono le grida di allarme di Falcone sulla pericolosità di Cosa Nostra. In città c’è un convegno sulle strategie della criminalità organizzata, alla presenza dei massimi esperti internazionali in materia. Ma in platea non c’è un solo magistrato siciliano. Avverte il giudice: «Il declino di Cosa Nostra, più volte annunciato, non si è verificato e non è purtroppo neanche prevedibile. I capi dell’organizzazione sono ancora tutti latitanti».
Ormai se ne fregano dello «sceriffo». Cosa vuole ancora? Ha avuto il suo tripudio? È diventato famoso? È il momento di voltare pagina. L’opportunità per tornare indietro arriva con la nomina del nuovo consigliere istruttore del Tribunale, il magistrato che deve sostituire Antonino Caponnetto. Chi più di Giovanni Falcone ha le carte in regola per occupare quella poltrona, per competenza, per la straordinaria prova che ha dato di sé, per i suoi contatti internazionali, per la sua dedizione assoluta all’ufficio, per il suo senso dello Stato? Nessuno. Ma Falcone va fermato.
I mandanti sono in Parlamento, e a Palermo, gli esecutori al Consiglio Superiore della Magistratura. C’è da scegliere fra lui e Antonino Meli, un anziano giudice che poco sa di dinamiche mafiose e indagini bancarie. Dilaniato da faide partitiche e inconfessabili interessi, il Csm affonda vergognosamente Falcone e lo relega al ruolo di comparsa in quell’ufficio istruzione divenuto il simbolo del riscatto di Palermo. Antonino Meli, che è presidente della Corte di Assise di Caltanissetta ed è alla vigilia della pensione, inizialmente inoltra una domanda per la presidenza del Tribunale della capitale siciliana.
Dopo qualche settimana, però, convinto da alcuni vecchi colleghi che non vogliono Falcone al posto di Caponnetto, la ritira e si mette in pista per la carica – senza dubbio meno prestigiosa ai fini di carriera – di consigliere istruttore.
Ha diciassette anni di magistratura più di Giovanni Falcone, anche se non ha alcuna esperienza in materia di criminalità organizzata punta tutte le sue carte sull’anzianità di servizio. In molti gli promettono un sostegno incondizionato. In moltissimi, ufficialmente, si schierano anche con Falcone. In realtà sono pochi quelli che lo vogliono a dirigere il suo pool. È troppo «anomalo» per le pigrizie e i tornaconti della giustizia italiana. Un giorno prima della votazione finale al Csm, Antonino Caponnetto vuole rimandare il suo pensionamento, restare ancora due anni a Palermo per non «disperdere l’esperienza e il risultato del maxi processo». Sta per inviare un telegramma a Roma ma Giovanni Falcone gli dice che non ci sono problemi, è sicuro che sarà lui il nuovo consigliere istruttore. Fa male i suoi conti. L’hanno già tradito.
La scelta del Csm
Il 19 gennaio 1988 in quattordici scelgono Meli e in dieci Falcone. La bocciatura è trasversale. A tramare fra i consiglieri togati del Csm c’è Vincenzo Geraci, un ex sostituto procuratore di Palermo. Tesse la sua ragnatela, convince una larga maggioranza a votare per Meli. A Falcone voltano le spalle anche molti consiglieri della sua stessa corrente – Unità per la Costituzione – e quasi tutti i rappresentanti di Magistratura Democratica. L’unico a difenderlo con passione è Gian Carlo Caselli. «Se non lo fermavamo, ce lo trovavamo fra sei mesi presidente della Cassazione», dicono a Palazzo dei Marescialli dopo il voto. «Sono un uomo morto», confida Giovanni Falcone ai pochi amici che gli sono rimasti. Il giudice sta diventando carne da macello.
Che cosa aveva detto il generale dalla Chiesa a Giorgio Bocca poco prima di morire? «Si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso, ma si può ucciderlo perché è isolato». La battaglia del Csm non è stata solo una bega fra magistrati, una rissa corporativa. E la prova arriva subito, appena il consigliere Antonino Meli s’insedia e comincia a demolire sistematicamente il pool antimafia. Il maxi processo concluso a dicembre è un ricordo sbiadito. Palermo torna la Palermo di sempre. Da qualche mese, in gran segreto, c’è un nuovo pentito che parla. È Antonino Calderone, un catanese che conosce gli affiliati di Cosa Nostra in tutta la Sicilia. È un’altra retata con centinaia di arresti. Calderone racconta anche i rapporti di contiguità del ministro repubblicano Aristide Gunnella con il boss di Riesi Giuseppe Di Cristina, ricorda come si è dato da fare Salvo Lima per far trasferire alcuni poliziotti non «addomesticabili», descrive i misfatti dei Cavalieri del Lavoro di Catania.
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