Pio La Torre è quel deputato che ha appena firmato una proposta di legge che è peggio di un mandato di cattura. È la numero 1581: “Norme di prevenzione e di repressione del fenomeno della mafia e costituzione di una Commissione parlamentare permanente di vigilanza e di controllo”.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulle storie di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Sui delitti e sulle stragi di trenta e quarant'anni, che hanno sconquassato la Sicilia.
Prima di lui, in Sicilia arriva la sua fama. Palermo è inquieta. Pio La Torre è quel deputato che ha appena firmato una proposta di legge che è peggio di un mandato di cattura. È la numero 1581: “Norme di prevenzione e di repressione del fenomeno della mafia e costituzione di una Commissione parlamentare permanente di vigilanza e di controllo”. Il linguaggio burocratico non riesce a nascondere il contenuto micidiale di quel progetto legislativo.
La proposta di Pio La Torre punta a classificare per la prima volta la mafia, tutta la mafia, come «associazione per delinquere». Nel disegno presentato in Parlamento suggerisce norme per il controllo dei patrimoni, per l’assegnazione degli appalti pubblici, per l’abolizione del segreto bancario. E poi c’è un provvedimento finale: la confisca dei beni per tutti coloro che vengono riconosciuti e condannati come mafiosi. È un’«invenzione» che ribalta un secolo di giurisprudenza. È una rivoluzione. Pio la Torre propone qualcosa che segnerà per sempre la storia d’Italia: essere mafioso è reato. I mafiosi sono i primi a capirlo. Si agitano, s’infuriano. «Ma che minchia vuole questo?», si dicono fra loro i boss nelle loro interminabili «mangiate» e «parlate» alla Favarella, la tenuta di Michele Greco detto il papa.
«È tutta colpa di un maresciallo ignorante, se il mio cliente è finito nell’inchiesta, una giustizia cieca e cattiva», mi spiega uno dei più famosi penalisti di Palermo, l’avvocato S.G.M. M’insegue nell’atrio del Tribunale per raccontarmi la vera storia di Michele Greco. Ha il passaporto, ha il porto d’armi, è stato anche campione italiano di tiro al piattello. Ha una concessionaria di motociclette al centro della città, in società con un barone e un conte. Ha un agrumeto dove lavorano centinaia di contadini. Il penalista mi vuole convincere che è tutta colpa di un accento.
Tira fuori dal borsone vecchie carte e comincia: «Un maresciallo di polizia, invece di trascrivere un’informativa su Michele Greco con la dizione corretta del suo nome – cioè come veniva effettivamente chiamato in borgata, «papà», per quanto era buono e generoso – ha segnato quel nome senza accento facendolo diventare papa. Qualcuno ci ha ricamato sopra e poi, il povero Michele Greco, è diventato il papa della mafia».
Lo guardo sbalordito. Dice sul serio o ha voglia di prendermi in giro? Dice sul serio. Passa qualche settimana e incontro ancora l’avvocato in Tribunale. Non mi rivolge il saluto. Chiedo a un suo giovane collega di studio: «Ma perché si è voltato dall’altra parte?». Mi risponde: «È molto offeso perché non hai pubblicato niente di quello che ti ha detto su quell’errore di trascrizione». Meno male. Dopo un paio di mesi si scopre che il «papa» o il «papà» di Ciaculli è il capo della Cupola, il governo di Cosa Nostra.
Il ritorno a Palermo
Suo fratello, Salvatore, che va e viene da Roma e non a caso è soprannominato il senatore per i suoi contatti, prova a rassicurare gli altri boss: «I nostri amici là sopra ci fanno sapere che quella proposta di legge non sarà mai approvata e, se sarà approvata, passerà tanto di quel tempo che noi saremo morti».
Tutti, alla Favarella, si sentono sollevati. Tutti tranne uno, Salvatore Riina, il capo di Corleone che da lì a pochi mesi diventerà il capo di tutto. È un sibilo quello dello zio Totò che arriva come una fitta al cervello degli altri: «Se uno ha male a un dito, è meglio tagliare il braccio così stiamo più sicuri». Pio La Torre si prepara a tornare in Sicilia. La sua «legge», trentacinque articoli, si perde nei labirinti del Parlamento. Con l’entusiasmo di un ragazzino – siamo nel 1981, ha appena compiuto cinquantaquattro anni ed è nella segreteria nazionale del Pci – chiede di ricominciare dalla città e dal comitato regionale da dove era stato malamente allontanato alla fine del 1967. Enrico Berlinguer non è del tutto convinto.
La Torre, però, è deciso. Ogni giorno tormenta il suo «maestro» Paolo Bufalini, che nel partito ha un grande peso. Gli dice: «Uno non può stare a galleggiare al vertice se sul fronte decisivo, che poi è carne della mia carne, c’è una battaglia eccezionale». Vuole rientrare a Palermo. Non pensa ad altro. Per i comunisti, le elezioni regionali non sono andate bene neanche nel 1981. Il segretario Gianni Parisi, scuola di partito a Mosca e moglie russa, è stanco. Dalla Sicilia, che sta vivendo una stagione drammatica, i compagni palermitani chiedono l’invio di Gerardo Chiaromonte o di Alfredo Reichlin. La segreteria nazionale del Pci non è d’accordo. Il responsabile dell’organizzazione, Giorgio Napolitano, avvia faticose consultazioni per capire chi può prendere in mano il partito in Sicilia con il consenso di tutti.
Le trattative si arenano per un’estate intera. C’è una parte che vorrebbe segretario regionale Luigi Colajanni, il figlio di Pompeo, il mitico «comandante Barbato» delle brigate partigiane in Piemonte. È un giovane dal profilo aristocratico, colto, molto salottiero. Può anche contare sull’appoggio della direzione e di alcuni notisti politici dell’Ora, il quotidiano della sera di Palermo che è proprietà del Pci. Ma c’è un’altra parte – quella considerata più conservatrice – che vorrebbe il figlio di contadini di Altarello di Baida, che è sempre rimasto nel cuore dei vecchi comunisti siciliani.
La soluzione, per settimane, non si trova. Anche perché La Torre, nonostante la sua passione e la sua irruenza – che mal si conciliano con la moderazione – per le sue frequentazioni interne al partito è indicato come un comunista di «destra». Uno che ai suoi tempi si è battuto per quel governo delle «larghe intese» con la Dc siciliana e poi ha appoggiato con forza il «compromesso storico» e la «solidarietà nazionale». Pio La Torre è un impasto fra impulso e logica, è «governativo» e «ribelle» insieme. È intransigente con se stesso e con gli altri, appartiene a quella razza di siciliani che non si calano mai, che non si arrendono. E poi parla sempre di mafia.
Passa per «rompicoglioni» anche fra i suoi amici. Gli dicono: «Vuoi abolire il segreto bancario? Figurati, non ci riuscirai mai». Anche nella cerchia più stretta del partito, a Roma, non c’è ancora la consapevolezza politica di un fenomeno criminale come Cosa Nostra e della minaccia che costituisce per l’Italia intera. È solo lui che ha quell’assillo: la mafia, i mafiosi. È fissato. Vede solo quello. È un’ossessione.
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