Per oltre sette anni Pio La Torre va e viene dalla sua isola e, ancora una volta, è testimone della seconda metamorfosi della mafia. Dal feudo all’edilizia, dall’edilizia all’infiltrazione in ogni attività economica dell’isola. Ci sono due uomini, in Sicilia, che più di chiunque altro personificano l’incastro perfetto fra il potere politico e quello mafioso.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulle storie di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Sui delitti e sulle stragi di trenta e quarant'anni, che hanno sconquassato la Sicilia.
La sua terza vita comincia dove finisce la seconda. Con Pio La Torre che attacca la mafia in Parlamento. Per tre legislature – nel ’72, nel ’76, nel ’79 – un figlio di braccianti di una borgata palermitana è il protagonista di una battaglia politica che segna una svolta nella storia italiana. È lui a intuire che la mafia siciliana è una «questione» nazionale, lui per primo.
Pio La Torre capisce che bisogna strappare i patrimoni ai boss. Sa bene che portare via la «roba» a un mafioso è alla lunga molto più importante che incarcerarlo o perseguirlo penalmente.
A Roma, dopo alcuni tentativi andati a vuoto verso la metà degli Anni Cinquanta, nasce finalmente una Commissione parlamentare Antimafia. Lì, alla Camera, Pio La Torre si batte per far passare leggi e provvedimenti contro «gli illeciti arricchimenti», i prestanome, le società fittizie che tutto arraffano per conto dei boss della politica e i boss delle «famiglie».
È il 20 dicembre del 1962 quando – con la legge numero 1720 – viene istituita la prima Commissione parlamentare «sul fenomeno della mafia in Sicilia per esaminarne la genesi e le caratteristiche, per proporre le misure necessarie e per reprimerne le manifestazioni ed eliminarne le cause».
I lavori della Commissione, formata da quindici deputati e da quindici senatori, durano tredici anni attraversando tre legislature. Si concludono con la stesura di 42 volumi. Dentro c’è la storia mafiosa della Sicilia. Schede sul sindaco Salvo Lima e la sua amministrazione. Biografie di Luciano Liggio e di Vito Ciancimino.
Relazioni prefettizie sullo scempio edilizio. Rapporti giudiziari sugli uomini politici legati ai boss. E centinaia e centinaia di pagine sui nuovi padroni della città. Uno è il conte Arturo Cassina, l’imprenditore che gestisce gli appalti di manutenzione di strade e fogne a Palermo. Gli altri sono i cugini Nino e Ignazio Salvo di Salemi, gli esattori.
La Commissione parlamentare, alla fine dei lavori, si divide: sulla natura dell’organizzazione criminale e sui collegamenti che ha con i pubblici poteri. Così, tutti gli atti sono accompagnati da una relazione di maggioranza del presidente della Commissione Luigi Carraro e da due relazioni di minoranza, una di destra e l’altra di sinistra.
La prima è del senatore Giorgio Pisanò. L’altra ha come primo firmatario l’onorevole Pio La Torre.
Palermo, città malata
Palermo è una città malata. Qui, Pio La Torre ha conosciuto quel carrettiere – Ciccio Vassallo – che è diventato ricchissimo. E ha visto burocrati del Comune e della Regione vivere in residenze patrizie, attraccare con le loro barche da trenta metri sui moli di Capo Gallo, acquistare appartamenti a Parigi e a New York, sedere nei consigli di amministrazione di aziende pubbliche e private. E negli enti regionali. Ircac. Esa. Espi. Sochimisi. Escal. Ast. Crias. Irfis. Eas. Eaoss.
Tutte sigle di consorzi e carrozzoni mangiasoldi per ingrassare i soliti noti, affaristi e mafiosi. Novantacinque presidenti, novantacinque segretari, migliaia di consiglieri e altrettanti stipendi da distribuire in giro per la Sicilia. L’orgia del potere. Palermo non è una città ricca ma sfrenatamente ricca. Piena di banche e di denaro.
Nei vent’anni che vanno dal 1952 al 1972 gli istituti di credito popolari crescono in Italia dell’85 per cento e a Palermo del 586 per cento, le società per azioni del 30 per cento in Italia e a Palermo del 202 per cento, le casse rurali del 12 per cento in Italia e del 25 per cento a Palermo. Soldi, soldi, sempre più soldi. La Sicilia è un Eldorado.
Per oltre sette anni Pio La Torre va e viene dalla sua isola e, ancora una volta, è testimone della seconda metamorfosi della mafia. Dal feudo all’edilizia, dall’edilizia all’infiltrazione in ogni attività economica dell’isola. Ci sono due uomini, in Sicilia, che più di chiunque altro personificano l’incastro perfetto fra il potere politico e quello mafioso.
Sono i Salvo di Salemi, un paese in provincia di Trapani. Li conoscono come i vicerè, sono mafiosi figli di mafiosi e padroni di alberghi, aziende agricole, di una banca, tre finanziarie, società turistiche, di cantine che producono dieci milioni di bottiglie l’anno. Soprattutto sono i capi della Satris, la società siciliana per la riscossione delle tasse.
Sono due cugini, Nino e Ignazio Salvo. Il primo è sanguigno, estroverso, ama i lussi. Sul suo yacht ancorato alla Cala di Palermo, alle pareti delle cabine ci sono Van Gogh e Matisse. L’altro è taciturno, freddo, astuto. I Salvo sono i principali finanziatori della corrente della Dc siciliana che fa capo a Giulio Andreotti. Sono intimi di Salvo Lima, che di Andreotti è il console in Sicilia. E di Stefano Bontate, il capomafia di Palermo. E di Gaetano Badalamenti, uno dei personaggi chiave del traffico di eroina fra Palermo e New York.
A loro portano tutti grande rispetto. Le ombre dei due cugini ogni tanto si intravedono dietro i vetri fumé della loro auto corazzata che sfreccia per le vie di Palermo. È l’unica macchina blindata che c’è in Sicilia. Prefetti e questori, quando un ministro è in visita per un comizio o una riunione di partito, contattano i Salvo per avere in prestito la loro auto di «rappresentanza». Sono intoccabili. Corrompono tutti. Nessuno indaga su di loro. Nessuno ha il coraggio di pronunciare neanche il loro nome. La Satris, le esattorie dei Salvo, impongono una gabella ai siciliani del 6,72 per cento. In alcuni anni, il balzello sfiora il 10 per cento. Nel resto d’Italia non supera mai il 3,5 per cento.
È un moderno sistema feudale. Difeso dai loro complici della Regione Siciliana. I due cugini controllano anche fra sessanta e settanta deputati in Parlamento. Prendono tutti ordini da Nino e da Ignazio. Interrogato dal sostituto procuratore della Repubblica di Palermo Giuseppe Ayala, confesserà anni dopo Nino Salvo: «La legge è la prima cosa che mi sono comprato». Sto salendo le scalinate del Palazzo di Giustizia, a Palermo, quando sento una mano pesante sulla spalla. Mi volto e c’è Nino Salvo. Ho davanti la mafia.
Resto per un attimo immobile, sto per dire qualcosa ma lui mi precede: «Lei ha scritto un paio di articoli pieni di cattiveria su di me e sulle mie esattorie. Perché uno di questi giorni non mi viene a trovare a Salemi che le spiego chi siamo e come siamo diventati quello che siamo?». Sto per rispondere, chiedergli quali sono queste cattiverie, non me ne lascia il tempo: «Lei lavora per il L’Ora, un giornale comunista, ma non sa che in Unione Sovietica non vogliono il vino delle cooperative rosse: vogliono il vino nostro, il vino dei cugini Salvo». Gli chiedo un’intervista «ma non sul vino», su altro.
Mi risponde: «Lo sa che cosa sono per me i giornali? Sono come i jukebox. Suonano la musica che voglio io, sono io che ci metto i gettoni e scelgo sempre io la canzone che voglio sentire». Nino Salvo se ne va sorridendo.
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