Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulle storie di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Sui delitti e sulle stragi di trenta e quarant'anni, che hanno sconquassato la Sicilia.


Il 3 marzo del 1982, cinquantasette giorni prima di morire, il segretario del Pci siciliano è a Roma per incontrare il Presidente del Consiglio Giovanni Spadolini. È con Ugo Pecchioli, il responsabile dei «problemi dello Stato» del Partito comunista, e con Rita Bartoli, la vedova del procuratore Gaetano Costa.

Al capo del governo, Pio la Torre consegna sette cartelle dattiloscritte, un dossier sulla strategia di guerra da mettere in atto contro Cosa Nostra. Chiede al presidente Spadolini d’intervenire «urgentemente». E di considerare la mafia non più solo un problema di ordine pubblico ma una «questione nazionale».

Suggerisce di mandare un uomo a Palermo: Carlo Alberto dalla Chiesa, il carabiniere che ha sconfitto il terrorismo in Italia. Un mese dopo, il 2 aprile, Giovanni Spadolini nomina il generale prefetto di Palermo. Ancora una volta, nella Sicilia dei primi Anni Ottanta si annuncia un nuovo incontro fra quei due uomini che si sono conosciuti nel 1948. A Corleone. Un incontro che non avverrà mai.

La Torre, adesso, non ha gli occhi puntati solo su Palermo, città dei misteri dove non si scoprono mai mandanti e manovratori. Va e viene da Comiso, un paesone in provincia di Ragusa dove il governo italiano, su pressione degli americani e in nome del Patto Atlantico, ha deciso – nell’agosto del 1981, in gran segreto – di trasformare un ex aeroporto militare nella base di missili nucleari più grande d’Europa. Si chiamano «Cruise» perché sono facilmente trasportabili, missili da crociera.

La Nato assicura che sono «intelligenti», leggeri, capaci di sfuggire ai radar sovietici. Ne vuole 112 proprio lì, a Comiso, tutti puntati contro il nemico di Mosca. È la corsa al riarmo delle Grandi Potenze prima del crollo del Muro di Berlino. In Sicilia è sollevazione. Ed è il «vecchio» La Torre che la guida con uno straordinario vigore, ritrovandosi ancora una volta capopopolo come nelle battaglie del feudo. Incrocia i sentimenti di rivolta dei movimenti pacifisti, monaci buddisti e ragazzi che provengono dalla Norvegia e dal Canada, da Londra e Parigi.

Organizza la contestazione nell’isola, coinvolge tutti quelli che può nella battaglia «contro i missili e per la pace». Anche la Dc, anche le associazioni cattoliche. Lancia una petizione per raccogliere un milione di firme e chiedere «la sospensione dell’inizio dei lavori della base».

Appuntamento a Comiso

Il 4 aprile del 1982, ventisei giorni prima di morire, è davanti all’ex aeroporto militare «Vincenzo Magliocco». Ci sono 100 mila manifestanti. Intorno alla base i mafiosi di Palermo hanno già cominciato ad acquistare terreni, ci sono imprese che si spostano dalla Sicilia occidentale al Ragusano per prepararsi all’arrembaggio dei sub-appalti, l’isola è destinata a diventare ancora terra di spie come lo è stata negli anni della seconda guerra mondiale.

È l’ultima settimana di aprile e Pio La Torre decide che il 1° maggio, festa dei lavoratori, non andrà a Portella della Ginestra per il trentacinquesimo anniversario della strage. Sarà invece a Comiso. «Quest’anno è più giusto stare là», spiega ai suoi. Da alcuni giorni, davanti ai cancelli dell’ex aeroporto militare, dodici pacifisti sono in sciopero della fame. Vuole stare con loro. Palermo lo agita troppo, è teso, angosciato. Nelle riunioni in corso Calatafimi avverte i quadri del partito di «stare molto attenti». Ai militanti dice: «Qualcuno potrebbe farcela pagare». Ma non molla.

Disciplinato e metodico, sveglia tutti i suoi collaboratori alle 7 del mattino per impartire direttive, suggerisce idee, li costringe ai suoi forsennati ritmi di lavoro. E aspetta il suo 1° maggio a Comiso, dall’altra parte della Sicilia. Quando gli dicono che hanno ucciso il suo amico Pio la Torre, apre il cassetto della scrivania e tira fuori la Cobra a cinque colpi. «È stato un gesto istintivo, mi è salito il sangue agli occhi, ho pensato: “Adesso li faccio fuori, tutti e due: Salvo Lima e Vito Ciancimino”.

In quel momento mi è tornato in mente il ghigno di Ciancimino, dieci anni prima, quando aveva parlato di Pio con odio dopo una riunione del consiglio comunale di Palermo. Non l’ho mai dimenticata quell’espressione di disprezzo e, a pelle, l’ho collegata alla morte di Pio».

La mattina del 30 aprile 1982 me la ricorda Nino Mannino, un dirigente del Pci siciliano che per vent’anni è stato sempre vicino a La Torre. A Palermo gira la voce che lui, quella pistola, la voleva usare contro chi nel suo partito aveva osteggiato La Torre con ogni mezzo. «Una menzogna», dice, «sulla vicenda mi ha anche interrogato il giudice Falcone e gli ho raccontato esattamente come erano andate le cose». Dopo l’omicidio di Pio La Torre, per molto tempo Nino Mannino camminerà per le strade di Palermo con la sua Cobra avvolta in un foglio di giornale.

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