L’altra guerra è fuori, scatenata all’esterno dell’organizzazione criminale. Per la prima volta nella sua storia, la mafia siciliana lancia una sfida violentissima alle Istituzioni. Non sta più con lo Stato ma contro lo Stato. Abbandona la sua antica natura per svelare un’anima «terroristica» mai vista prima.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulle storie di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Sui delitti e sulle stragi di trenta e quarant'anni, che hanno sconquassato la Sicilia.
C’è molta inquietudine nel Pci siciliano, quando a Botteghe Oscure scelgono finalmente il segretario dell’isola. All’inizio dell’autunno del 1981, Pio La Torre è di nuovo a Palermo. È felice.
Ha qualcosa dentro che lo spinge giù, che lo riporta alla sua prima vita, alla giovinezza, alle lotte contadine del dopoguerra. Forse cerca una rivincita, ma soprattutto ha un fuoco – lo stesso di quando andava in giro nel 1945 ad aprire sezioni fra Altarello di Baida e i Chiavelli – che gli brucia l’anima.
Ricorderà Giorgio Napolitano un quarto di secolo dopo: «Fui colpito e condizionato dalla sua straordinaria determinazione nel chiedere di potere tornare a Palermo, di potere tornare a dirigere in prima linea. Si sentiva come chiamato a una prova, ne faceva un punto d’onore».
È finalmente nella sua Palermo. Ai vecchi compagni sembra quello conosciuto tanti anni prima. Ostinato, sempre pieno di coraggio, con la stessa parlata palermitanissima che ha fin da ragazzino. Alto, con qualche chilo in più, i capelli crespi tirati indietro, gli stessi occhi vivi. Quella che Pio La Torre ritrova è la città dei morti e la Sicilia dei missili. A Palermo è tempo di mattanza. Nell’isola, tra la fine degli Anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, sono due le «guerre» che si combattono. Una è dentro Cosa Nostra.
Una resa dei conti che comincia con l’uccisione di Stefano Bontate, il più potente mafioso di Palermo. E che prosegue nei mesi successivi con agguati a ripetizione, lupare bianche, nemici di cosca torturati e sciolti nell’acido. Vengono fatti fuori anche i boss più influenti di Trapani, di Agrigento e di Caltanissetta, i don che regnano come califfi nei loro paesi. E i loro figli, fratelli, nipoti, cugini, cognati.
Muoiono anche dall’altra parte dell’Atlantico, sulle strade del New Jersey. È caccia spietata ai Gambino e ai Di Maggio e agli Inzerillo che vivono a Cherry Hill. Uno di loro, Pietro, una mattina del gennaio del 1981 lo trovano nel bagagliaio di una Cadillac abbandonata davanti all’Hilton di Mont Laurel. Assassinato tre giorni prima e lasciato dentro l’auto con una banconota da 5 dollari infilata in bocca e due da un dollaro sui genitali.
«Hai voluto mangiare e peccare troppo», è il messaggio. Ma il cadavere di Pietro Inzerillo un anno dopo rivelerà altre trame. La chiamano «guerra di mafia» ma non è solo guerra di mafia. È sterminio di massa, pulizia etnica, annientamento di intere fazioni di Cosa Nostra – le più ricche e potenti – che custodiscono i segreti di tanti italiani importanti. Gente che abita ai piani alti della politica e del business. A Milano. A Roma. L’aristocrazia mafiosa, che resiste generazione dopo generazione da oltre un secolo, è spazzata via. Non è soltanto odio. È il golpe dei Corleonesi.
La guerra “fuori”
L’altra guerra è fuori, scatenata all’esterno dell’organizzazione criminale. Per la prima volta nella sua storia, la mafia siciliana lancia una sfida violentissima alle Istituzioni. Non sta più con lo Stato ma contro lo Stato.
Abbandona la sua antica natura per svelare un’anima «terroristica» mai vista prima. È il principio di un attacco che avrà il suo picco molto tempo dopo. Nell’estate del 1992. In quella Palermo cupa e con le sue strade riconosciute per le lapidi e gli altarini, Pio La Torre avverte in anticipo che gli equilibri mafiosi e politici stanno saltando.
Palermo non è più avvolta solo nella sua opulenza e nel suo silenzio. Servono cadaveri nelle pubbliche vie. C’è il coprifuoco, a Palermo. Il terrore. Nel gennaio del 1979 uccidono il cronista giudiziario del Giornale di Sicilia, Mario Francese. A marzo, il segretario provinciale della Democrazia Cristiana Michele Reina. A luglio, Boris Giuliano, il capo della Squadra Mobile. A settembre, tocca al consigliere istruttore Cesare Terranova. Il 1980 si apre con l’omicidio del Presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella.
A maggio ammazzano Emanuele Basile, il comandante della Compagnia dei carabinieri di Monreale. Ad agosto cade il procuratore capo della repubblica Gaetano Costa. Omicidi «preventivi» e omicidi «dimostrativi», i primi per eliminare pericoli imminenti (è così per il giudice Terranova, l’amico di Pio La Torre), gli altri per minacciare (è così per il segretario provinciale della Dc Michele Reina) e produrre paura. Gli omicidi di Palermo nel 1982 arrivano a quota 148.
L’omicidio del Procuratore Costa
È il tardo pomeriggio del 6 agosto 1980, la radio della polizia comincia a far rumore. Voci che si accavallano, ordini concitati. «Codice 9 da centrale operativa a volante due… codice 9 convergere su via Cavour». Codice 9: omicidio. Il vecchio Gianni, Gianni Lo Monaco, cronista di giudiziaria de L’Ora, mi urla: «Via Cavour è il centro di Palermo, il morto è un morto importante».
Scendiamo in piazzale Ungheria, svoltiamo a destra per via Ruggiero Settimo e siamo davanti alla bancarella di libri di via Cavour. C’è un uomo a terra, è ancora vivo. Gianni Lo Monaco, ha quasi sessant’anni, è il giornalista di Palermo più informato sulle cose di mafia. Incontra il procuratore capo della repubblica Gaetano Costa ogni mattina.
Ce l’ha a un metro e non riesce, non vuole riconoscerlo. Si nasconde dietro di me, trema, mi chiede: «Chi è?, Lo sai chi è?». «È il procuratore, Gianni». Gaetano Costa, galantuomo, partigiano in Val di Susa, magistrato senza macchie. Di lui, un collega dice: «È un uomo di cui si può comperare solo la morte». Al Palazzo di Giustizia dicono che è un comunista, lo chiamano con disprezzo il «procuratore rosso»
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