Walter Briatore e Roberto Rizzi sono vittime rimaste prive di dignità per trenta lunghi anni. Per tutto questo tempo i loro casi sono stati considerati dei rompicapo senza alcuna soluzione, senza alcun movente. Ad infangare la loro integrità l’ipotesi di una probabile seconda vita invischiata nel malaffare che i due avrebbero condotto all’oscuro delle famiglie e degli amici.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alle persone meno note uccise dalla mafia e il cui numero cresce di anno in anno. Dal 1961 si contano circa 1031 vittime innocenti.
Una estate rovente, quella, per il capoluogo piemontese. Non solo per il Föehn che spirava dal Passo del Brennero, ma anche e soprattutto per le revolverate che macchiavano di sangue caldo le strade della città: sei omicidi in meno di un mese quell’anno.
“Si cerca un movente che faccia un po’ di luce sul delitto di via Monfalcone a Torino: il misterioso agguato che è costato la vita a Walter Briatore, 36enne rappresentante di generi alimentari nativo di Roburent e da anni domiciliato a Torino in via Gorizia, attigua all’altra strada dove alle 8 di venerdì scorso uno sconosciuto – quasi sicuramente un killer – ha ucciso il Briatore con un colpo di pistola cal. 45 esploso a bruciapelo all’altezza della nuca. Il rappresentante, uscito poco prima di casa, aveva raggiunto a piedi l’auto parcheggiata in via Monfalcone per recarsi al lavoro. Stava aprendo la portiera e probabilmente senza che se ne rendesse conto o potesse imbastire una reazione, l’assassino che lo stava aspettando l’ha freddato con un solo colpo. Una vera e propria esecuzione.”
Così recitava un giornale locale, pochi giorni dopo il 15 luglio 1988. Un usuale mattino estivo, il cielo ancora dipinto dell’azzurro rosato tipico delle prime ore del dì. Walter era uscito di casa intorno alle 7.30 e si era recato alla latteria vicina, per comprare il suo quotidiano. Ritornato a casa per colazione, assapora l’aroma del suo caffè, mentre spulcia le notizie odoranti di carta appena stampata. Saranno gli ultimi sprazzi di mondo che Walter gusterà prima di accasciarsi per terra in una pozza di sangue, che si confonde con il rosso vivo della sua Citroen targata Cuneo. Intorno alle 7.50 esce di casa, per recarsi al lavoro, dove vende prodotti alimentari per mense, ospedali e case di riposo. Mentre infila la chiave nella serratura della macchina, un uomo sbuca alle sue spalle e gli spara alla nuca. Nessuno sente niente, come spesso accade, anche se siamo al Nord! Nessuno può testimoniare. Solo dopo un po’ di tempo un passante lancia l’allarme ai Carabinieri, quando ormai il cuore di Walter non batte più.
Quel giorno si consumava la tragedia di Walter Briatore, quando ancora di luce, su quel caso, non ne era stata fatta. E di luce non ne sarebbe stata fatta per diverso tempo. Solo trenta anni dopo, infatti, il caso è stato riaperto – dopo l'archiviazione – con una pista da seguire: i sicari della 'Ndrangheta non cercavano Walter. Lui fu “un errore”.
Doppio scambio di persona
L’errore fu il comune denominatore di un altro misfatto, avvenuto sempre in quel di Torino, pochi mesi prima. Il 20 maggio 1987 in un bar di via Pollenzo, “I Tre Moschettieri”, perdeva la vita anche un altro innocente, del tutto ignaro ed estraneo agli intrighi della mafia: si chiamava Roberto Rizzi, un impiegato 31enne con la passione per la pesca e una famiglia a casa ad aspettarlo dopo una giornata di lavoro. Roberto in quel bar al civico 37 aveva gli amici. Lo stesso bar frequentato dal vero obiettivo del killer. Un locale gremito di torinesi di ogni estrazione sociale, i cui schiamazzi delle partite a carte si udivano dal marciapiede antistante. Sul ciglio di quel marciapiede era parcheggiata l’auto di uno degli esponenti di spicco del crimine calabrese trapiantato a Torino. Con lui, il sicario di fiducia, Vincenzo Pavia, incaricato di freddare qualcuno. Lui, Roberto, vantava invece una vita costellata di sacrifici, che niente avevano a che fare con la mafia. Sacrifici e sogni. Quei sogni infranti, squartati come il suo capo, da due colpi di rivoltella.
In entrambi i casi l’obiettivo della rivoltella e del sicario pareva indubbio. E invece no. Ad ammetterlo, quasi in fin di vita e forse per scrupolo di coscienza, il killer di Rizzi. Da un’algida camera del carcere in cui era rinchiuso, la spettrale confessione: «Mi indicarono la persona sbagliata, io andai e lo uccisi».
E chi sarebbe dovuta essere la persona giusta allora? Precedenti per estorsione e gioco d’azzardo, Franco il Rosso, soprannome di Francesco Di Gennaro, fu poi giustiziato dal bruto protocollo ‘ndranghetista il 24 agosto 1988.
In comune con i due innocenti, Briatore e Rizzo, solo la fisionomia: una chioma fulva, baffi alla chevron, stessa statura. Il Rosso, nei lontani anni ’80, si contendeva il traffico do sigarette di contrabbando, prostituzione e gioco d’azzardo con un cosca ‘ndranghetista. Si trattava del clan Belfiore-Saffioti, poi finiti sotto inchiesta grazie all’operazione Minotauro che ha accertato la presenza della ‘ndrangheta in Piemonte. Mentre Walter Briatore e Roberto Rizzi sono rimaste private di dignità per 30 lunghi anni. Per tutto questo tempo, infatti, i casi sono stati considerati dei rompicapo senza alcuna soluzione, senza alcun movente.
A infangare la loro integrità l’ipotesi di una probabile seconda vita invischiata nel malaffare che i due avrebbero condotto all’oscuro delle famiglie e degli amici. Un’ipotesi che per tre estenuanti decenni ha tormentato gli animi di chi sapeva l’onestà che aveva contraddistinto i due. Come cita un antico proverbio “l’uomo che sposta le montagne comincia portando via i sassi più piccoli”, così la loro irreprensibilità è stata riscattata, seppur poco alla volta.
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