- Altro che generali, prefetti e super-commissari, nella disperata Calabria la sanità pubblica è nelle mani della ‘ndrangheta. Dalla siringa all’ecografo, sono i clan e le loro imprese a imporre le scelte. Ma senza minacce, quella è roba da fiction dozzinale. Basta corrompere.
- L’ultima inchiesta della procura della repubblica di Reggio Calabria, con il supporto investigativo del Ros dei carabinieri, ci parla di una borghesia corrotta, compromessa con la ‘ndrangheta e le sue imprese, pronta a baciare le mani dei boss.
- Ma il punto forte delle aziende medico-sanitarie della ’ndrangheta di Gioia Tauro erano i rapporti con i vertici della Asp reggina.
Altro che generali, prefetti e super-commissari, nella disperata Calabria la sanità pubblica è nelle mani della ‘ndrangheta. Alla salute dei calabresi pensano i vari “Capretta, Mommino, Facciazza, ‘u Spungiuni”. Quando proprio occorre, interviene anche il signor “sciacquatrippa”. Sono loro, boss, figli e nipoti di boss, a scegliere dal direttore sanitario al portantino, a definire lo spostamento di primari, infermieri e caposala, a decidere dove, come e da quali imprese si fanno gli acquisti.
Dalla siringa all’ecografo è la ‘ndrangheta con le sue imprese ad imporre le scelte. Ma senza minacce, quella è roba da fiction dozzinale. Basta corrompere. Pagare direttori sanitari e primari, avere le entrature giuste, fare regali e assicurare voti a professionisti che non si fanno pregare più di tanto per aiutare gli “amici”. L’ultima inchiesta della procura della repubblica di Reggio Calabria, con il supporto investigativo del Ros dei carabinieri, ci parla di una borghesia corrotta, compromessa con la ‘ndrangheta e le sue imprese, pronta a baciare le mani dei boss.
“Chirone” è il nome dell’indagine che ha fatto finire in galera rampolli della ‘ndrangheta (cosche Piromalli, Molé, Tripodi), vertici di imprese che si occupano di forniture sanitarie, medici e responsabili della Asp di Reggio Calabria. L’azienda della vergogna, sciolta e commissariata per mafia, con i bilanci mai presentati e i conti devastati dalla prassi delle fatture pagate, due, tre volte agli stessi creditori. In quegli uffici, le cosche potevano tutto, erano «dominanti», nominavano dirigenti, come «l’attuale direttore del distretto Tirrenico, Salvatore Barillaro, nome imposto su precisa volontà dei Tripodi», famiglia storica della Piana di Gioia Tauro.
A parlare del «governo mafioso della sanità» calabrese è Giovanni Bombardieri, procuratore di Reggio Calabria. «Quando la pandemia è arrivata, il sistema era già tanto radicato da trovare terreno fertile e accrescere le proprie opportunità di illecito profitto», aggiunge il comandante del Ros, Pasquale Angelosanto. Diciotto arresti, 8 milioni di euro di beni sequestrati. I Piromalli, insieme alle famiglie alleate, dominavano la sanità pubblica grazie a Fabiano Tripodi, medico, ma soprattutto regista delle società Minerva srl, Mct, e Lewis medical. Sia chiaro, senza minacce. Bastava pagare.
«Lautamente», come scrivono i carabinieri. All’ospedale di Polistena servivano cateteri, picc e sterilizzanti, nessun problema, interveniva la Mct e sborsava mazzette: «Il 5 per cento dell'importo della fornitura delle pompe per infusione e relativi deflussori, che si aggiungeva al 2,5 per cento del valore della fornitura dei cateteri picc». Al responsabile anestesia e rianimazione dell’ospedale di Gioia Tauro fu messa a disposizione una Bmw aziendale, insieme ad altre regalie, «in cambio della sua incondizionata messa a disposizione alle esigenze del clan». Il tutto meticolosamente annotato in un “libro mastro”.
Ma il punto forte delle aziende medico-sanitarie della ’ndrangheta di Gioia Tauro erano i rapporti con i vertici della Asp reggina. Col direttore sanitario Salvatore Barillaro, in primo luogo. Il professionista, chiariscono i carabinieri del Ros, non era «intraneo» alla cosca, ma «la supportava dall'esterno, prestandosi a diventare un punto di riferimento, divenendo mero esecutore di decisioni assunte dai Tripodi inerenti varie nomine, o trasferimenti di dipendenti, ed attivandosi per dare corsia preferenziale ai mandati di pagamento che il laboratorio Minerva doveva ricevere dall'Asp».
«Ce l’abbiamo come direttore sanitario», dissero contenti i boss dopo la sua nomina. Neppure il dottor Antonino Coco era «intraneo» alle cosche Piromalli-Tripodi-Alvaro, ma favoriva la Mct (l’azienda dei boss) «intervenendo su alcuni sanitari (un primario dell'ospedale di Lamezia Terme, un primario del reparto di ortopedia dell'ospedale di Reggio Calabria) per la fornitura di sterilizzanti prodotti dalla ditta lcm di Martelli Giancarlo e macchinari ecografici prodotti dalla ditta Sinescape e commercializzati tutti dall'azienda Mct, per il tramite della ditta Lewis Medica che era l'impresa che poteva trattare con la Asp di Reggio Calabria, essendo tra le ditte vincitrici dell'appalto.
Per tale contributo riceveva nel Natale 2017 una somma di denaro in contanti pari a mille euro, a titolo di compenso corruttivo; - stilando un patto elettorale politico-mafioso con Laurendi Domenico, intraneo al clan Alvaro, nell'interesse di Creazzo Domenico, in quel momento sindaco di Santa Eufemia che stava preparando la sua discesa in campo per la competizione elettorale regionale, e dichiarandosi pronto a sostenere «qualcuno che poi, noi garantiamo e ci garantisce».
Creazzo fu davvero candidato alle ultime elezioni regionali ed eletto nelle file di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Venti giorni dopo venne arrestato con l’accusa di scambio elettorale politico-mafioso. Anche il medico Antonio Coco, tra una mazzetta e l’altra, scelse l’avventura politica, ma nelle liste della Lega di Salvini. Non fu eletto. Stando alle carte dell’inchiesta, i suoi servigi costavano poco alla mafia imprenditrice sanitaria. Lo raccontano in una intercettazione due manutengoli dell’impresa mafiosa. «Però al dottore Coco ci vuole, gli diamo, gli diamo 500 euro». «Ma no, mannaia, solo 500, mille sono giusti, che se non lo lecchiamo lo perdiamo, minchia ci fece guadagnare. Senza di lui non c'era tutto questo. Ora gli facciamo la pantomima, dottore noi qua siamo in famiglia, non è che vi dobbiamo comprare una caramella, un vestito, un orologio. Compratevi voi quello che volete».
Ad altri medici e responsabili sanitari andò certamente meglio. «Devo fare bella figura», dice un responsabile dell’azienda riferendosi ad un «regalo da fare». «Non me ne fotte un cazzo, alberghi giusti, voli giusti. Lui esce pazzo per Amsterdam, ce lo mandiamo, e poi Praga, San Pietroburgo. Dottore, volete andare in America? Lo mandiamo in America».
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