Alessandro Burbank, oltre a essere un poeta, è un grande cultore della cucina. I suoi video su youtube fondono poesia e narrazione culinaria, ma anche nei suoi versi il cibo ritorna sempre come nella poesia Dare nome dove invoca dei ravioli che però non rispondono perché in realtà sono agnolotti
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Alessandro Burbank è un poeta veneziano con doppia cittadinanza italo-statunitense, ora torinese d’adozione. Nato nel 1988 a Monselice ha trascorso la prima infanzia in terraferma e la giovinezza in laguna. È cultore della parola e del cibo, appassionato di cammini e di viaggi, sperimentatore delle possibilità che i social network possono offrire alla creazione artistica. I suoi profili e il suo canale Youtube sono ricchi di video che fondono poesia e narrazione culinaria. Ha un sistema mente-corpo in moto perpetuo, accade pure adesso che ci parliamo attraverso lo schermo di uno smartphone. Accade che a volte la connessione abbia dei piccoli sussulti, perché Burbank parlando deve camminare e muoversi, accompagnando così al ritmo delle parole quello dei passi.
Burbank ci dica, che cosa c’entra un artista con il cibo, e qual è il ruolo degli agnolotti nella sua poetica?
Ho scritto una poesia che si intitola Dare nome (contenuta nella raccolta Salutarsi dagli aerei, Interno poesia, 2018) in cui molte volte mi rivolgo a dei ravioli, li invoco chiamandoli “ravioli ravioli ravioli”. Ma loro non rispondono, perché sono degli agnolotti. In quel testo è molto forte il tema del parlare con il cibo, che è una cosa che faccio continuamente, perché ho sempre fame e devo gestirla.
Che cosa vuol dire avere sempre fame?
Ho avuto problemi con il cibo fin dall’infanzia, quindi in principio era anche una fonte di terrore. Venivo attratto da quello rappresentato nelle pubblicità e nei cartoni animati giapponesi, dove è un elemento che serve per caratterizzare i personaggi e parlare di cultura. Fuori dallo schermo c’era l’infanzia nella campagna di Monselice, dove ho vissuto con dei nonni che comunicavano le emozioni non attraverso le parole ma cucinando cose buone. Ci sono ingredienti legati a quel tempo e a quel luogo che non ho mai più incontrato, di cui ancora ricordo il sapore, come i fegatini di coniglio.
La fame però è anche non riuscire a entrare in contatto con se stessi, soffocare i propri pensieri e non analizzarli. Per me è sempre stata una chiamata verso qualcosa e adesso, crescendo, leggendo, informandomi, si è trasformata in coscienza. Diventa coscienza quando sai che può danneggiarti, ma sai di poterla anche girare a tuo favore, perché è giusto togliersi qualcosa che fa male ed è giusto godere. È una doppia cittadinanza. Così come il fatto di essere sia italiano che statunitense, sia campagnolo che veneziano, fa parte di me. Si tratta più di un’oscillazione da equilibrista che di una scissione. Adesso la mia missione psicologica è normalizzare il cibo attraverso la poesia, esaltarne la cultura, trovarlo dentro ai classici.
Parlando di doppie cittadinanze come si è modificata, arrivando a Torino, la sua geografia culinaria?
Arrivare in Piemonte otto anni fa ha arricchito il mio immaginario. Qui hanno vini pazzeschi e piatti iconici. Hanno inventato cose come il vitello tonnato e quando ho saputo che c’erano questi ravioli del plin sono andato subito a procacciarmeli. Il fatto che alcuni piatti abbiano nomi così particolari è per me una fonte di entusiasmo ulteriore, come se mi avvicinassi prima ai nomi delle cose, perché è lì che nasce la leggenda. Per esempio il vitello tonnato inizialmente non aveva il tonno. Si chiamava “tonné” per via di un dialettismo piemontese che deriva dal francese e significa “condito”. E questa parola negli anni Ottanta ha finito con il portargli il tonno. Insomma è la parola che ha portato l’ingrediente, quindi, quando sono arrivato a Torino prima di tutto mi sono arrivate le parole. Solo dopo ci ho messo dei piatti. Poi c’è la questione dei confini, la cucina piemontese è una sorta di porta verso la cucina europea, ammettendo comunque che la cucina è del mondo ed è sempre fatta di porte che si aprono continuamente. Nella cucina vige l’anarchia, soprattutto di confini.
Burbank, ci ha raccontato molte cose di sé ma forse non abbiamo ancora capito come definirla, né se questo sia possibile…
Qualche giorno fa ho avuto un dubbio. Ho pensato di sostituire, sul mio profilo Instagram, la dicitura “poeta” con “critico gastronomico”. Poi non l’ho fatto, mi sono chiesto perché avrei dovuto, se la mia specialità è proprio la poesia. Ho pensato al poeta e amico Julian Zhara che definisce la poesia l’arte zoppa. Non ha conservatori, università e scuole. Il suo insegnamento sta emergendo solo ora, ma non ha mercato. Bisogna cucirle intorno, con serenità, altre vesti come la poesia performativa che porta nei teatri. Io mi vanto di aver creato la food poetry, ma ci sono testimonianze storiche di ricette tramandate oralmente che sono state tradotte anche in poesia. Per esempio la ricetta del clam chowder – una zuppa di pesce, pane e maiale presente anche in Moby Dick e in Capitani Coraggiosi – nel 1751 viene riportata da una rivista sotto forma di ricetta in rima. Il poeta è, in fondo, quello che si siede in un posto, guarda e scrive.
Un libro di cucina e un libro di poesia che dobbiamo assolutamente recuperare.
Per quanto riguarda la cucina consiglio Pranzi d’autore. Le ricette della grande letteratura di Oretta Bongarzoni (Minimum Fax, 2022) perché dietro c’è una storia profonda e si conclude con una lettera molto commovente. La raccolta poetica che consiglio invece è Chiosco, di Hans Magnus Enzensberger (Einaudi, 2013).
Prossimi progetti?
Mi piacerebbe specializzarmi nel rapporto tra letteratura e cibo, avere molte curiosità storiche e letterarie da trasformare in poesia o in reading. Quello che mi interessa, soprattutto, è comunicare quanto è bello avere un approccio poetico alle cose.
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