Due così metterebbero in difficoltà anche il più esperto quadro dell’ufficio facce. Peraltro, non aiutano neppure i curricula, perché se due dei personaggi più evocativi della semifinale di Euro 2024 tra Spagna e Francia – stasera a Monaco di Baviera – hanno scelto un giorno, di fare qualcosa che pochi loro colleghi avrebbero fatto, in certe condizioni. I cv però non mentono: Dani Olmo e N’golo Kanté sono due calciatori e uno dei due, domenica notte, potrà festeggiare la vittoria dell’Europeo tedesco, ma non c’è dubbio che lo farà a modo proprio, certo nel gruppo, ma fuori dal coro, come si conviene a chi ha giocato sinora la propria carriera sul campo di una felice eterodossia.

Lo spagnolo

Le facce, si diceva. Daniel Olmo Carvajal è un calciatore, e che calciatore è Dani Olmo: 26 anni, catalano, figlio d’arte (arte povera, quella di papà Miquel, come giocatore, più quotata da allenatore), poliedrico, intelligente, talentuoso. Ma la faccia da calciatore proprio non ce l’ha: biondo e pallido, smilzo, ha l’aria di uno di quei turisti del nord Europa che potresti trovare sulle spiagge italiane ad arrostirsi senza accorgersene. Di più: non ha neppure un tatuaggio sul corpo; nessun tribale, nessun animale feroce a fauci spalancate, nessuna frase motivazionale, nessun angelo, nessun demone. Niente di niente. Non che ciò lo renda necessariamente migliore – no, non è questo il punto – ma di sicuro lo rende diverso dalla schiera di colleghi in fondo tutti uguali, tatuati perché sono ragazzi del loro tempo, perché è figo, perché credono di avere qualcosa da dire in quel modo, e per carità, sarà pur vero, però dai, è che togliersi la maglietta porta pure like. Ecco: Dani Olmo, a proposito, di follower ne conta a centinaia di migliaia, non a milioni, e avrà pure la spunta blu, ma non pare granché interessato a influenzare, con quella faccia lì. Semplicemente, è sui generis.

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Il francese

Anche N’golo Kanté è un calciatore, e che calciatore è anche N’golo Kanté, uno che ormai di anni ne ha 33, ma avercene di quelli come lui, e ha questa faccia dolce di ragazzino grato alla vita, zero aggressività negli occhi; milioni e milioni di follower, ma senza niente da ostentare, sobrio, antidivo, e del resto fanno parte del suo mito i racconti dei compagni che, per anni e nonostante contratti milionari, a lungo lo hanno visto acquistare e guidare solo utilitarie, peraltro di seconda mano (del resto, è ragioniere: il titolo di studio lo raggiunse anni fa, hai visto mai…), a differenziarsi all’interno dei parcheggi dei centri sportivi che fanno le fortune delle fotogallery dei siti web che si occupano dei gusti dei calciatori. Tatuaggi? Anche per lui nessuno, la sua storia parla più di qualsiasi disegno sull’epidermide, non c’è bisogno di scoprire niente.

Traiettorie le più disparate, poi, quelle delle loro carriere calcistiche, e in questo senso Dani Olmo ha davvero qualcosa di speciale. Anni e anni nel settore giovanile del Barcellona, alla leggendaria Masia, una delle massime aspirazioni per i cantori e gli aedi del fútbol, ma non così tanto per lui, splendida eccezione, uno che aveva di tutto per sfondare, ma aveva anche fretta di giocare, e allora a 16 anni se ne andò, ma non per una capitale europea dotata di una big del calcio, no: destinazione Zagabria, non esattamente Disneyland per un sedicenne.

Le traiettorie difformi

Però in Croazia non è che ci fosse tutta questa fila di fenomeni ambiziosi e sgomitanti, si può giocare subito titolare, cosa che a Barcellona se non sei Lionel Messi o Lamine Yamal non è così immediata, e allora eccolo lì a farsi apprezzare, il più improbabile dei regali per un campionato e un club alla periferia dell’impero, e a starci pure bene, con quella faccia lì, e quando nel 2020 lasciò la Croazia, nonostante offerte di livello (c’era anche il Milan) scelse Lipsia, Nagelsmann, il progetto Red Bull. Sarebbe forse stato più semplice altrove, ma non sarebbe stato lui. Oggi lo vogliono tutti, dal Barcellona al Manchester City di Guardiola, e allora sì, Dani Olmo è uno che ha scelto il giro largo e se l’è goduto, perché ne valeva la pena, e vederlo all’Europeo è in fondo un segnale di speranza: non c’è bisogno di omologarsi, di far casino, di mettersi forzatamente in mostra. Avere le idee chiare, ma averle proprie, può bastare.

È bastato anche a N’golo Kanté, che un anno fa se ne andò in Arabia Saudita quando avrebbe tranquillamente potuto giocare in tutte (letteralmente: tutte) le squadre europee di vertice. Ora, l’Arabia Saudita è considerata, nemmeno completamente a torto, dimora di mercenari calcistici, un po’ perché è vero, tanto però anche per pregiudizio etnocentrico, perché nel gioco delle parti funziona così, e in questo senso la scelta di Kanté potrebbe apparentemente smontare la retorica che gli è stata costruita attorno, quella del calciatore umile, sostanzialmente disinteressato al guadagno, avendone già a sufficienza per sfamare diverse generazioni a venire.

Eppure Kanté nel campionato saudita continua a correre, non è lì a farsi compatire, e in fondo anche quella è una tappa, come forse un giorno lo sarà il Royal Excelsior Virton, il club belga di cui è diventato proprietario e che non è troppo distante, filosoficamente, dal suo primo Boulogne, dove riuscì a lanciarsi sebbene nessuno capisse da dove tirasse fuori corsa e grinta, lui timido e sgraziato, e che poi ha vinto tutto dove non era previsto (Leicester), dove era necessario (Chelsea) e dove (Francia) quelli come lui raccontano un mondo e una società la cui forza e la cui umanità si mostrano, alle urne, a un passo dal disastro.

«Speriamo, dopo il 7 luglio, di essere ancora fieri di indossare questa maglia», aveva detto Kylian Mbappé, perché per i calciatori francesi, che sono evidentemente citoyens, la politica non è un tabù, e anche questa è l’eterodossia che dà valore a un Europeo nel quale, da Dani Olmo a Kanté, i ragazzi senza frontiere sono sempre in grado di metterli in difficoltà, a quelli dell’ufficio facce.

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