- Lo scorso martedì il Consiglio della Figc ha modificato le regole organizzative che permettono alle calciatrici della Serie A di diventare professioniste. Si tratta di un atto rivoluzionario perché in Italia è la prima apertura al professionismo formale nel settore femminile. Ma i distinguo persistono.
- L’ingaggio sarà allineato agli standard della Serie C maschile, con il minimo annuo di 26mila euro. Vengono riconosciuti i diritti pensionistici e assistenziali, ma soprattutto quello alla maternità che era già stato tutelato dalla Fifa.
- Sul piano del tesseramento il movimento è in crescita. Ma si continua a sollevare eccezioni sulla sostenibilità economica del professionismo sportivo al femminile, anziché interrogarsi su quella del professionismo sportivo tout court.
Un passo epocale. In Italia il calcio femminile diventa professionistico dal 1° luglio 2022 e traccia una linea che adesso non potrà più essere ignorata. Perché il messaggio è forte e parla a tutto lo sport italiano, sollecitandolo a fare i conti una volta per tutte con le sue ipocrisie. E perché adesso una scelta così forte andrà anche sostenuta e agevolata economicamente, per evitare che rimanga soltanto una petizione di principio.
Per il momento rimane agli atti il colpo battuto dalla Federazione italiana gioco calcio (Figc) guidata da Gabriele Gravina. Che su questo fronte ha tenuto il punto andando fino in fondo rispetto alle intenzioni. Ha preso l’impegno e lo ha portato a termine con l’approvazione delle modifiche alle norme organizzative interne della federazione (Noif), giunta martedì 26 aprile.
Per una volta il calcio italiano si è dimostrato all’altezza del suo ruolo di sport leader nel paese. E toccherà alle altre federazioni imitare questo percorso. Cosa tutt’altro che agevole perché gli ostacoli da superare sono numerosi. A partire dal principale: l’equivoco ancora irrisolto sulla differenza fra un professionismo formale e un professionismo di fatto, con quest’ultimo che continua a essere spacciato per dilettantismo.
Cosa cambia
A partire dalla stagione calcistica 2022-2023 le calciatrici della Serie A italiana entrano nel professionismo formale. Assumono cioè uno status da professioniste dello sport che viene riconosciuto dalla legge dello stato e dalle norme della federazione per la quale sono tesserate.
Viene loro riconosciuto un pacchetto di diritti che parte dal salario minimo stabilito per contratto, allineato a quello dei colleghi uomini che militano in Serie C: 26mila euro lordi all’anno. E accanto alla retribuzione fissata per legge giungono le prestazioni di welfare associate alla disciplina del lavoro dipendente: i diritti previdenziali e assistenziali e soprattutto quello alla maternità. ù
Un terreno, quest’ultimo, sul quale a novembre 2020 si era già registrato un passo in avanti a opera della Fifa, che ha riconosciuto un congedo di maternità della durata di 14 settimane.
Il cambio delle regole voluto dalla Federcalcio italiana permette di definire in modo più sistematico i diritti delle calciatrici. Che adesso possono godere, fra l’altro, dei diritti pensionistici e della protezione in caso di malattia. Ciò che fin qui non era dato. L’anomalia starebbe nel fatto che sia stato necessario aspettare aprile 2022 per assegnare alle calciatrici un pacchetto di diritti che sarebbero elementari.
E invece, se proprio la si deve mettere sul piano delle anomalie, si scopre che la situazione è rovesciata. E che ancora in questa fase storica le donne del calcio italiano, appena approdate la professionismo, sono un’anomalia. Che va innanzitutto protetta e consolidata, per consentire che da qui in poi faccia da apripista per le altre discipline sportive.
Formale o di fatto
C’è un punto da chiarire, quando si parla di professionismo nel mondo dello sport: che bisogna distinguere tra un professionismo formale e un professionismo di fatto.
Formale è il professionismo degli atleti che sono tali per legge e perché come tali li etichetta la federazione nazionale per la quale sono tesserati, che a sua volta deve riconoscere il lavoro professionistico.
Quest’ultimo aspetto è cruciale per comprendere quanto, in realtà, sia limitata in Italia la portata dello sport professionistico perché le federazioni di disciplina che lo riconoscono sono soltanto quattro: basket, calcio, ciclismo e golf. Fino al 2013 altre dure federazioni appartenevano a questa ristretta cerchia, quelle del motociclismo e del pugilato. Da allora hanno preferito dismettere lo status professionistico per passare integralmente al dilettantismo.
Siamo dunque in presenza di una lista estremamente ridotta, dalla cui lettura capiamo quanto residuale sia in Italia il fenomeno del professionismo formale. Ma la panoramica non sarebbe completa se non si aggiungesse un dato ulteriore: fino allo scorso 26 aprile le quattro discipline sportive in questione erano professionistiche soltanto nel settore maschile. Invece nel settore femminile continuavano a essere tutte dilettantistiche anche nelle categorie agonistiche di massimo livello.
Per questo la decisione del Consiglio federale giunta in settimana infrange una realtà che in Italia si era stratificata alla stregua di un tabù: l’impossibilità che lo sport femminile potesse essere formalmente professionistico.
Dunque il calcio apre una breccia nella quale adesso tutte le altre discipline sportive sono chiamate a inserirsi. Per farlo dovranno sciogliere definitivamente l’equivoco sul fenomeno del professionismo di fatto. Dato dalla peculiare relazione fra società sportiva e tesserati/tesserate secondo cui il vincolo reciproco è formalmente dilettantistico, ma a tutti gli effetti si tratta di un rapporto di lavoro professionale.
Perché laddove un/a atleta faccia dell’attività sportiva la propria preponderante se non unica fonte di reddito, oltreché il sistema di pratiche che assorbe integralmente le proprie condotte di vita quotidiana (non soltanto in termini di performance in gara e delle lunghe sessioni settimanali di allenamento, ma anche di gestione della vita personale e sociale in funzione di garantirsi la piena efficienza in allenamento e in gara), ecco che non si può assolutamente parlare di dilettantismo.
Si tratta di professionismo chiamato in altro modo. Il caso dello sport italiano è dominato dal professionismo di fatto, in via prevalente nel settore maschile e in via che è stata esclusiva nel settore femminile fino a quando il calcio non ha rotto il fronte. Con ulteriore limite nel settore femminile dato dal fatto che la scelta della maternità, già molto complicata da fare nel pieno di una carriera il cui arco temporale della piena efficienza performativa è molto limitato, espone in modo pressoché automatico alla perdita della retribuzione.
Costoso soltanto al femminile?
L’apertura al professionismo suggella nel calcio una tendenza alla costante crescita del movimento. Gli ultimi dati disponibili sono relativi alla stagione 2019-20, quella successiva al boom mediatico generato dai mondiali femminili disputati in Francia nell’estate del 2019.
Le cifre raccontano di 31.390 tesserate, con aumento del 13,6 per cento rispetto alla stagione precedente. Siamo ancora molto lontani dai tesserati del calcio maschile (oltre un milione), ma la tendenza al rialzo è testimoniata dal raddoppio del tesseramento nel settore giovanile durante l’arco di un decennio: da 3.410 a 6.848.
Va aggiunto che lo sviluppo del settore calcistico femminile ha scontato un lungo ritardo, in primo luogo culturale, e che per questo i margini di miglioramento sono molto ampi. Il settore ha enormi potenzialità di crescita e in quest’ottica l’apertura al professionismo può essere un acceleratore.
E tuttavia, c’è da rilevare l’obiezione sollevata con insistenza nei lunghi mesi che hanno preceduto la decisione del Consiglio federale Figc. Da più parti è stato sostenuto che l’apertura al professionismo nel settore femminile rischi di essere fatale a molte società, a causa dell’impennata dei costi che ciò comporta.
Un argomento di crudo realismo che non può certo essere negato. E che tuttavia proietta luce su un’altra dimensione del pregiudizio, rilevabile attraverso un interrogativo: è forse soltanto il professionismo sportivo femminile a essere costoso, o lo è il professionismo sportivo tout court?
Ecco la vera questione intorno alla quale bisognerebbe discutere. Per interrogarsi su quanta parte dello sport italiano possa permettersi di essere professionistica (sia formalmente che di fatto), senza andare incontro al rischio di bancarotta delle società sportive.
Non è questione di maschile o femminile, ma di sostenibilità economica. E non saranno certo i modesti budget della Serie A femminile a mandare in crisi un sistema che altrove deve trovare il modo di darsi gestioni virtuose.
© Riproduzione riservata