Il cuore, nella poesia dei cantori del pallone, evoca sentimenti e suggestioni da iperuranio. Ha pure un simbolo universale, non c’è neanche bisogno di descriverlo, e si mettano l’anima in pace i fuoriclasse del design: il miglior logo possibile ce l’ha già, il cuore. Hai voglia allora a parlare di organi, funzioni, cose così, è un brivido prosaico. Eppure, tutto parte da lì, non dal mondo delle idee, ma da un ciclo: diastole, sistole, diastole, sistole. Un giorno, il 12 giugno 2021, nel cuore di Christian Eriksen qualcosa è andato storto. Era un sabato. Era in campo, erano gli Europei, si giocava Danimarca-Finlandia a Copenaghen.

Il 2021

Le immagini della sua caduta ormai privo di sensi – dello scudo che i compagni gli fecero onde evitare la pornografia del dolore, dell’abbraccio del ct Hjulmand alla moglie disperata, dell’uscita in barella – le hanno viste tutti, le ricordano tutti. Oggi pomeriggio, a Stoccarda, Christian Eriksen tornerà a disputare una partita degli Europei, e potrebbe apparire un aspetto banale considerando che in campo lo si vede ormai da due anni e mezzo, che nel frattempo ha disputato anche un Mondiale, che è sotto contratto con il Manchester United. Eppure di scontato, dopo un arresto cardiaco, c’è ben poco, anche se si indossa il numero 10 della nazionale danese.

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Quell’Europeo ha segnato una svolta nella sua carriera e nella sua vita. Nel petto di Eriksen, da allora, c’è un ICD, un defibrillatore sottocutaneo che gli consente una vita normale, anzi di più, considerando le sollecitazioni alle quali uno sportivo professionista è abituato.

I compagni

Quel giorno a Copenaghen, per salvarlo, fu decisiva la rapidità dei soccorsi, furono fondamentali i compagni che non sottovalutarono nulla e seppero cosa fare, ed è per questo che Eriksen può tornare all’Europeo, memoria e quotidianità, e non è nella lista che, purtroppo, spesso si compila quando le cose non vanno come andarono quel giorno di tre anni fa, da Miklos Feher a Marc-Vivien Foé, da Piermario Morosini ad Antonio Puerta, da Raphael Dwamena – il meno conosciuto: cadde su un campo del campionato albanese, si era fatto operare per rimuovere il defibrillatore sottocutaneo impiantato dopo un arresto cardiaco – a Davide Astori, che morì prima di una partita, non durante una gara.

Il cuore è anche e soprattutto quello, e allora non può stupire che Eriksen, dopo il ritorno, non sia libero di giocare ovunque. Era un calciatore dell’Inter quando tutto cambiò, ma da allora in Italia non può farlo. Anzi, più correttamente: non può giocare nei campionati italiani federali, perché se la sua Danimarca dovesse essere impegnata in Italia, lui in distinta potrebbe tranquillamente figurare.

Non si tratta di una contraddizione, ma di uno degli ultimi retaggi di Stato sociale: dal 1971, infatti, in Italia la legge prevede che la tutela della salute dello sportivo agonista non sia su base individuale, ma garantita appunto dallo Stato, ed è per questo motivo che chi ha impiantato un ICD non può ottenere l’idoneità agonistica e, per i tifosi italiani, Eriksen è ormai solo un calciatore televisivo, a meno di non dilettarsi a seguire il suo club o la Danimarca in giro per il mondo (non necessariamente lontano: lo scorso ottobre scese in campo a San Marino nelle qualificazioni europee, facendo una enorme fatica per batterlo 2-1).

Qui esiste una regolamentazione più stringente rispetto a gran parte degli altri Paesi europei, ecco perché il danese può giocare in Premier, ma da noi no; sebbene non possa essere una garanzia rispetto alle disgrazie (e non riguardi l’attività amatoriale, il punto scoperto), è uno di quegli strumenti di medicina preventiva che dev’essere considerato un patrimonio, non certo qualcosa di paternalistico. E l’Europeo che ritrova Eriksen, e viceversa, invita anche a riflettere su altro: il cuore, la salute, la prevenzione. La vita intorno al calcio.

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