Il sovraffollamento, la mancanza di attività lavorative o ricreative strutturate, gli ostacoli ai legami affettivi influiscono enormemente sulla psiche dell’individuo: in cella il trattamento medico va garantito in modo continuativo ai pazienti con disturbi psichici. L’Italia invece sembra disattendere le direttive europee, come dimostra la storia di Giuseppe
Giuseppe (nome di fantasia) era minorenne quando è entrato in carcere la prima volta. Adesso ha poco più di 30 anni, è papà di due bambini che non vede mai. Oggi come allora in cella non ha mai seguito un trattamento adeguato ai suoi disturbi dell’umore e di personalità borderline, antisociale. «Lo stato è assente. In teoria, mio figlio dovrebbe scontare la pena in una comunità. Eppure non è così», denuncia la mamma Anna (nome di fantasia).
Giuseppe soffre di fragilità psichiatriche e tossicodipendenza da oltre 15 anni. È un adolescente quando prova forte tensione, ansia, sbalzi d’umore a cui la famiglia non sa dare risposta: frequenta il liceo scientifico, studia con scarso impegno e sembra poco incline alle regole. La neuropsichiatra gli diagnostica il disturbo borderline di personalità. Anna chiede aiuto a psicologi e assistenti sociali, ma ogni tentativo sembra vano. Giuseppe entra nel vortice della cocaina e del gioco d’azzardo.
I medici gli prescrivono una terapia a base di sodio valproato, uno stabilizzatore dell’umore. Lo attesta la relazione psichiatrica del SerT (servizi per la tossicodipendenza) di Cosenza. «Mio figlio non è stato mai violento con la famiglia. Durante le crisi nervose, batteva la testa contro la porta di casa. Era restio a seguire la terapia», spiega Anna. Giuseppe è in carcere da molti anni: prima il minorile, poi i domiciliari, le comunità in Calabria, la lunga detenzione al “Sergio Cosmai” casa circondariale di Cosenza, sua provincia d’origine, e alla fine il trasferimento a Taranto, lontano da famiglia e affetti. «Il fratello va ai colloqui ogni 15 giorni, quando può in base al lavoro. Io, il padre, la compagna e i bambini non lo vediamo da mesi», racconta la mamma.
L’ambiente penitenziario esaspera le fragilità dei pazienti psichiatrici, come Giuseppe. Lo dimostrano numerose ricerche scientifiche e rapporti sulle condizioni detentive.
La dottoressa Lisa Roncone nel suo intervento sulla salute mentale in carcere scrive: «Il sovraffollamento, la mancanza di attività lavorative o ricreative strutturate, gli ostacoli ai legami affettivi influiscono enormemente sulla psiche dell’individuo». I dati dell’associazione Antigone confermano la tesi a riguardo: il 12 per cento delle persone detenute in Italia ha una diagnosi psichiatrica grave. Secondo la Risoluzione del Parlamento europeo, in carcere il trattamento medico va garantito in modo continuativo ai pazienti con disturbi psichici. Lo ribadisce il Report 2014 dell’Oms Prisons and health.
L’Italia invece sembra disattendere le direttive europee. L’associazione Antigone denuncia in anni diversi «il ricorso agli psicofarmaci per sedazione collettiva» e «l’’impossibilità di avere un’adeguata assistenza psichiatrica e psicologica» negli istituti penitenziari italiani. È il caso di Giuseppe. Anna non sa neppure come stia il figlio e che tipo di terapia segua nel carcere di Taranto. L’associazione Yairaiha si appella a Pietro Rossi, Garante delle persone detenute in Puglia e invia certificati e cartelle cliniche di Giuseppe alla direzione carceraria. «Ho notizie su mio figlio solo dai volontari», dice Anna. A fine luglio, iniziano i colloqui tra una psicologa e Giuseppe, ma non si sa se proseguiranno.
Dal 2008 il Sistema Sanitario nazionale, tramite le Regioni, gestisce la medicina penitenziaria. La salute delle persone detenute rientra nelle competenze delle Asl (azienda sanitaria locale). «I problemi regionali sono amplificati dietro le sbarre: le liste di attesa per gli esami, come in Puglia, sono lunghissime - spiega Alessandro Stomeo di Antigone. - Mancano gli agenti di polizia che devono accompagnare gli ammalati dagli istituti di pena agli ospedali».
Quando il carcere, come nel caso di Giuseppe, non ha la cartella clinica del paziente psichiatrico, già in cura in centri riabilitativi pubblici, «è l’avvocato a fare da intermediario tra l’istituto penitenziario e l’Asl», dice Stomeo.
La legge disegna un nuovo modello organizzativo per la salute mentale delle persone detenute. Tuttavia, come spiega Antigone, gli «strumenti sembrano scarsi e inadeguati». Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari chiudono nel 2015. Adesso ci sono trenta Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) in tutt’Italia, gestite dalle Regioni e gli Atsm (Articolazioni per la tutela della salute mentale), sezioni apposite previste solo in pochi istituti penitenziari. Secondo il professor Mauro Palma, ex Garante nazionale delle persone detenute, «è fondamentale tutelare legami affettivi per i pazienti».
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