La sentenza di primo grado della settima sezione penale del Tribunale di Milano ha assolto tutti i 15 imputati, tra i quali l’ad Claudio Descalzi e il suo predecessore, Paolo Scaroni, dall’accusa di corruzione internazionale perché «il fatto non sussiste». Secondo l’accusa, Eni e Shell avrebbero versato 1.092 miliardi di dollari per aggiudicarsi la concessione dei diritti di esplorazione sul blocco petrolifero Opl245
La settima sezione penale del Tribunale di Milano ha assolto in primo grado tutti i 15 imputati dall’accusa di corruzione internazionale nell’ambito del processo sulla presunta tangente da 1.092 miliardi di dollari che sarebbe stata versata da Eni e Shell per aggiudicarsi la concessione da parte del governo della Nigeria dei diritti di esplorazione sul blocco petrolifero Opl245. Secondo la settima sezione, presieduta dal giudice Marco Tremolada, «il fatto non sussiste». Assolti dunque, tra gli altri, anche Claudio Descalzi, amministratore delegato di Eni, e il suo predecessore, Paolo Scaroni, oggi presidente del Milan. Assoluzioni anche per le due società Eni e Shell.
La procura aveva chiesto per gli imputati una condanna a otto anni. Tuttavia il tribunale, dopo circa sei ore di camera di consiglio, ha deciso per l’assoluzione. Il dispositivo della sentenza è stato letto nell'aula appositamente creata alla Fiera di Milano.
Le assoluzioni
I giudici hanno assolto l'ad Eni Descalzi, all'epoca dg Exploration&Production, l'ex numero uno Scaroni, l'ex responsabile operativo del gruppo di San Donato nell'Africa sub-sahariana Roberto Casula, l'ex manager della compagnia italiana nel Paese africano nonché “grande accusatore” Vincenzo Armanna, l'ex manager di Nae, controllata Eni in Nigeria, Ciro Antonio Pagano, l'ex ministro del Petrolio nigeriano Dan Etete, Luigi Bisignani, il russo Ednan Agaev, l’imprenditore ed ex viceconsole in Nigeria Gianfranco Falcioni, l'ex presidente di Shell Foundation Malcom Brinded, gli ex dirigenti della compagnia olandese Peter Robinson, Guy Jonathan Colgate e John Coplestone. Assolte anche le due società, imputate per la legge sulla responsabilità amministrativa degli enti.
Altri due imputati, gli intermediari Gianluca Di Nardo ed Emeka Obi, coinvolti nell’affare Opl245, hanno scelto il rito abbreviato nel corso dell’udienza preliminare del 2017 e sono stati condannati in primo grado dal Gip Giuseppina Barbara a 4 anni di reclusione ciascuno e alla confisca di 112 milioni di dollari, già sequestrati in Svizzera su richiesta della Procura di Milano. La sentenza del giudice Barbara si è basata solo sulle prove raccolte dalla pubblica accusa nel corso dell’indagine fino all’udienza preliminare. La sentenza di appello del rito abbreviato è attesa nel mese di maggio 2021.
Le reazioni
«Finalmente a Claudio Descalzi è stata restituita la sua reputazione professionale e a Eni il suo ruolo di grande azienda», ha dichiarato Paola Severino, avvocato difensore dell'ad della compagnia petrolifera.
Soddisfatto anche Enrico De Castiglione, avvocato di Scaroni: «Il Tribunale ha ritenuto quello che noi avvocati abbiamo ribadito per tutto il processo, e cioè che non ci fossero dei motivi solidi per contestare il reato di corruzione internazionale. E' la logica conseguenza di un processo in cui si è riacquistata la centralità del dibattimento». Quella sulla vicenda del giacimento Opl-245 in Nigeria è la seconda sentenza di assoluzione che incassa il gruppo Eni, ha continuato il legale, dopo la vicenda della presunta corruzione in Algeria e «speriamo che sia finita questa barbarie, visto che il mio assistito è sotto processo da 12 anni per varie vicende ed è sempre stato assolto in tutti i gradi di giudizio e sempre con formula piena. Sicuramente di questa ulteriore sentenza sarà molto contento».
«Rappresento Eni – ha detto invece l'avvocato Nerio Diodà, difensore del gruppo petrolifero – quindi è un onore poter dire che Eni è estranea ad ogni illecito penale e amministrativo. E' un risultato di grande civilità giudiridica. Ci sono voluti tre anni di impegno e di confronti molto duri, ma questo è per tutti i cittadini del Paese un esito che garantisce una giustizia equilibrata. Abbiamo fiducia nei giudici».
Le tappe del processo
La sentenza Eni-Nigeria è stata una delle più attese degli ultimi anni. Al centro del processo, la licenza acquistata dal "Cane a Sei Zampe” e dal colosso olandese Shell per sfruttare il blocco petrolifero Opl-245, in un tratto di mare nel Golfo della Guinea a circa 150 chilometri dalla terraferma. Un giacimento ricchissimo, pagato “appena” 1,3 miliardi di dollari. Somma ritenuta troppo bassa dagli inquirenti milanesi, visto il valore della zona, che li ha portati a sospettare che le due compagnie avessero corrotto i politici locali.
Proprio da qui sono partiti il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro nel ricostruire passo dopo passo l'intera vicenda. Eni e Shell, per l'accusa, per ottenere quella licenza avrebbero pagato una maxi tangente da un miliardo e 92 milioni di dollari. Somma che, dopo una serie di passaggi bancari - transitando dalla società nigeriana Malabu Oil & Gas - sarebbe finita nelle tasche del titolare Dan Etete, già ministro del Petrolio, e da lì ad altri politici e funzionari nigeriani e italiani. A processo sono finite anche Eni e Shell per le quali i pm hanno chiesto una sanzione pecuniaria di 900 mila euro ciascuna e una confisca, in solido con tutti gli imputati, di 1.092 miliardi.
La vicenda ha preso il via nel 1998, quando il governo militare di Sani Abacha - al potere dal 1993 - aveva dato la concessione per il campo perolifero Opl-245 alla Malabu, di cui erano soci l'allora ministro Etete e uno dei figli di Abacha. Con la morte di Abacha e la transizione verso un governo democratico, anche la licenza concessa alla Malabu è stata rimessa in discussione. Nel 2002 era stata vinta da Shell tramite gara d'appalto, con un'offerta di 210milioni dollari di bonus versato per poter iniziare le esplorazioni. Immediati i ricorsi presentati dall'ex ministro Etete, che nel 2006 la ottenuto che la licenza tornasse alla Malabu. Shell ha dato il via ad un arbitrato internazionale e nel 2010 è entrata in scena anche Eni firmando un accordo con la Nigeria per ottenere il 40 per cento della licenza, lasciando il restante 60% a Malabu.
La trattativa, però, ha subito un'ulteriore battuta d'arresto per via di un altro cambio di governo: il nuovo ministro nigeriano del Petrolio, Diezani Madueke, ha deciso di concedere la licenza completa alla Malabu senza tener conto dell'accordo con Eni. Una svolta inattesa, che ha spinto Eni e Shell a tentare la via del negoziato comune, questa volta con l'allora ministro della Giustizia Mohammed Adoke Bello. L'intesa fu raggiunta nell'aprile 2011: le due società si accordarono per pagare 1,3 miliardi di dollari alla Nigeria - 1,1 miliardi da Eni più il bonus di firma già pagato da Shell - per avere la licenza sul campo petrolifero Opl-245.
Tutto finito dunque? Niente affatto. In un Tribunale di Londra, l'avvocato nigeriano Emeka Obi ha reclamato il pagamento di 215 milioni di dollari - ne otterrà circa 110 - per il suo ruolo di intermediario. Abbastanza perché i giudici inglesi decidessero di bloccare un conto fiduciario del governo nigeriano aperto alla JP Morgan di Londra su cui Eni aveva versato 1 miliardo e 100 milioni di dollari. Da quel conto, nel frattempo, erano partiti bonifici per 801 milioni di dollari, che dopo un lungo giro tra banche del Libano e della Svizzera, sono finiti alla Malabu di Etete.
Nel 2013 della vicenda vennero a conoscenza tre ong in prima linea contro la corruzione - Global Whitness, The Corner House e l'italiana Re:Common - che denunciarono tutto alla procura di Milano. Nel 2013 il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale ha aperto un fascicolo per corruzione internazionale e nel 2017 ha preso il via il processo. L'ultimo colpo di scena è arrivato qualche settimana fa, con la riapertura del dibattimento, su richiesta dell'accusa, che ha fatto acquisire due email già allegate ad una sentenza dell'Alta Corte di Londra in merito a una causa civile tra la Nigeria e JP Morgan. Una in particolare, datata giugno del 2011, per l'accusa proverebbe l'esistenza dell'accordo corruttivo tra i vertici di Eni e Shell e politici e personaggi di spicco nigeriani.
I legali di Eni e Shell hanno più volte sottolineato come i due colossi petroliferi non fossero al corrente che una somma di denaro era destinata ad Etete e tantomeno che l'ex ministro del Petrolio l'avrebbe distribuita a politici e personalità di spicco nigeriane.
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