Ergastolo anche in appello. Ed è il nono per l’ex Nar Gilberto Cavallini. In assise la condanna era stata per strage comune. La testimonianza di Bellini
Ergastolo anche in appello. Ed è il nono per l’ex Nar Gilberto Cavallini, 71 anni, tra i quali anche quello per l’assassinio il 23 giugno del 1980 a Roma del giudice Mario Amato, che alla vigilia della strage di Bologna stava indagando a fondo la destra eversiva, avendone compreso la pericolosità.
Ma questa volta la condanna è per strage politica, mentre in assise era stata per strage comune. L’infinito cantiere giudiziario riguardante il massacro alla stazione del 2 agosto 1980 (85 morti, oltre 200 feriti) archivia dunque una ulteriore sentenza che va nella direzione già ampiamente indicata dalle condanne definitive all’ergastolo, vecchie ormai di quasi trent’anni, di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, a cui nel 2007 si era aggiunta quella a trent’anni per Luigi Ciavardini, minorenne il giorno della strage.
Era un esito prevedibile, visto che il dibattimento di secondo grado non ha portato alcuna rinnovazione degli elementi di prova. Tranne uno, tra i principali cavalli di battaglia della difesa dell’ex Nar, ma trasformatosi in un boomerang: ha a che fare con la cosiddetta pista palestinese, se ne parlerà più avanti.
Prima va infatti chiarito il senso della condanna all’ergastolo pronunciata l’altro ieri dal presidente della Corte d’assise d’appello Orazio Pescatore, dopo sette ore di camera di consiglio.
Cavallini l’ha appresa a Terni, dove si trova in regime di semilibertà. Condanna dunque ai sensi dell’articolo 285 del codice penale, appunto strage politica, e non ex articolo 422, la strage “semplice” per la quale era stato condannato a inizio 2020.
Non si tratta di un cavillo, come è immediatamente percepibile: la finalità politica della strage è un elemento qualificante della vicenda giudiziaria, in linea peraltro con le sentenze che a suo tempo hanno riguardato gli altri ex Nar (tutti condannati per concorso nella strage), formula peraltro confermata anche lo scorso anno al termine del processo di primo grado che ha riguardato il pluriassassino Paolo Bellini, ex membro di Avanguardia nazionale.
Il passaggio precedente
E il dispositivo dell’assise per Cavallini aveva sorpreso un po’ tutti, a partire dalla Procura che ne aveva chiesto la condanna per strage politica.
Il deposito delle motivazioni, a inizio 2021, aveva messo a nudo un autentico scontro tra l’accusa e la Corte, con quest’ultima (presidente Michele Leoni) che aveva duramente bacchettato la Procura, spiegando in sostanza che tutto indicava come in effetti la strage avesse carattere politico (le oltre 2 mila pagine lo confermano), ma che non poteva emettere una sentenza così motivata proprio per via di come la Procura aveva formulato l’accusa.
Tutto ruotava attorno a una parolina, “spontaneista”: il carattere cioè che l’accusa addebitava alla formazione estremista dei Nar, sulla base di una annosa vulgata.
Spontaneista e quindi slegata da strategie politiche, rapporti con i servizi segreti o con altre entità occulte: ovviamente la P2 di Licio Gelli, invece già condannato per aver pesantemente depistato le primissime indagini degli anni ’80 e il cui ruolo di finanziatore della strage è stato chiarito nel corso dell’inchiesta mandanti, sfociata nel processo a Bellini. E dunque, per Leoni, una condanna per strage politica sarebbe stata in contraddizione con la formulazione della Procura, che pure l’aveva chiesta.
Sta di fatto che ora la Corte d’assise d’appello ha aggiustato il tiro, accogliendo la parziale impugnazione della Procura generale appunto nella parte motivazionale. Il risultato non cambia: ergastolo. Ne cambia però a tutti gli effetti la lettura. Entro novanta giorni il deposito delle motivazioni dovrebbe mettere nero su bianco questo passaggio, che pure era ampiamente prevedibile sulla base dell’andamento delle udienze. Certo, tre mesi nel migliore dei casi: per lo stesso Cavallini in primo grado e pure per Bellini si dovette attendere un anno esatto. Ma non dovrebbe essere questo il caso, visto che il dibattimento d’appello è stato particolarmente rapido: otto udienze in tutto.
Quella nei confronti di Cavallini è a tutti gli effetti una condanna che arriva con evidente ritardo: fu lui a ospitare Mambro, Fioravanti e Ciavardini a Villorba di Treviso il giorno precedente la strage, da lì i tre partirono alla volta di Bologna – questa la ricostruzione avvalorata da più Corti – con una vettura messa loro a disposizione proprio da Cavallini.
E al di là della possibilità che del commando facesse parte lo stesso Cavallini, scenario mai esplicitato in sentenze ma neppure escluso, il suo cosiddetto “contributo agevolatore” è fuori discussione. Sorprende piuttosto che i processi per concorso in strage lo abbiano riguardato a così tanti anni di distanza dai fatti e dalle condanne definitive degli altri ex Nar.
La pista palestinese
Si diceva della cosiddetta pista palestinese. La difesa Cavallini ci contava: la pressoché totalità dei motivi di appello iniziali andavano in quella direzione, con richieste di ulteriori testimonianze (compresa quella del noto terrorista internazionale Ilich Ramirez Sanchéz, il celebre “Carlos”), la questione della presunta 86esima vittima (i resti attribuiti a Maria Fresu) e soprattutto l’introduzione in atti delle cosiddette “carte di Giovannone”, vale a dire i documenti che l’allora capocentro del Sismi a Beirut inviò in Italia tra il 1979 e i primi anni Ottanta.
Carte che da tempo il fronte innocentista indicava come chiave di volta di tutto, in quanto legate alla vicenda di Ortona, dove nel novembre 1979 venne intercettato il trasporto di due lanciamissili destinati alla resistenza palestinese, con conseguente arresto dei corrieri (tre esponenti dell’Autonomia, più pochi giorni dopo un membro del Fronte popolare per la liberazione della Palestina).
La tesi, in sostanza, era che la bomba alla stazione di Bologna costituisse un atto di ritorsione da parte dei palestinesi, per mano dello stesso Carlos, oppure che l’esplosivo che fece strage alla stazione fosse pure in transito. E che insomma i Nar non c’entrassero nulla.
La recente desecretazione del carteggio ha fatto sì che finalmente tale documentazione sia entrata in atti, per la prima volta dopo anni di polemiche. Era una richiesta della difesa, l’unica accolta dalla Corte d’assise d’appello (con il polemico abbandono del patrocinio di Cavallini da parte dei suoi “storici” avvocati Pellegrini e Bordoni, sostituiti da un legale d’ufficio): tutto il resto è stato escluso per motivate ragioni procedurali, comprese le innumerevoli questioni che rimandavano alle condanne di Mambro, Fioravanti e Ciavardini, ovviamente non più affrontabili (nulla di nuovo aveva peraltro portato la difesa) in quanto definitivamente passate in giudicato. La produzione delle carte di Giovannone è avvenuta addirittura per mano della Procura generale. Che però, dopo averle analizzate, ha avuto gioco facile in aula nello smantellare qualsiasi collegamento con la strage di Bologna, come peraltro già aveva fatto questo giornale a marzo, all’atto della messa a disposizione di tali documenti ai ricercatori.
Pista palestinese dunque morta e sepolta? Impossibile esserne certi. E non tanto per via di tutti quei giornalisti, ricercatori e storici che continuano a sostenerla, benché le carte di Giovannone secondo la Procura generale dicano il contrario.
Paolo Bellini
La settimana scorsa, nella penultima udienza del processo d’appello a Cavallini, era infatti rispuntato a sorpresa Paolo Bellini, con la richiesta di essere sentito in extremis come testimone: voleva spiegare i suoi rapporti con una struttura segreta che, poco prima della strage, aveva l’obiettivo di “ricucire” i rapporti con i palestinesi, struttura di cui avrebbero fatto parte l’ex procuratore della Repubblica di Bologna, il chiacchieratissimo Ugo Sisti, e addirittura Francesco Cossiga e Flaminio Piccoli, che allora erano presidente del Consiglio e segretario della Dc.
Sono tutte questioni a cui Bellini mai ha fatto cenno nel corso del proprio lungo processo: curiosamente, ne ha parlato solo a sentenza emessa, in lunghe interviste diffuse in rete prima di essere riportato in carcere dai domiciliari, dopo che in alcune intercettazioni era stato sentito pronunciare pesanti minacce nei confronti del figlio del presidente della Corte d’assise che lo ha condannato e della propria ex moglie.
Fu infatti lei a inchiodarlo, riconoscendolo in un filmato amatoriale realizzato da un turista svizzero la mattina del 2 agosto 1980 in stazione. E in un’altra intercettazione Bellini se ne lamenta: «D’accordo per quarant’anni poi adesso non mi copre più».
Ovviamente la Corte ha respinto la sua richiesta, ritenendola del tutto ininfluente a fini processuali. Logica vorrebbe che Bellini abbia in animo di rilanciare il tutto: d’altra parte nei prossimi mesi prenderà il via anche il suo processo di secondo grado, quale occasione migliore? Meglio tardi che mai. Peccato che nelle oltre 400 pagine che compongono l’atto d’appello presentato dai suoi difensori non vi sia alcun riferimento alla cosiddetta pista palestinese.
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