All'1.45 di lunedì 13 novembre, la bimba inglese di otto mesi affetta da una grave malattia genetica incurabile è morta. Alcuni hanno sostenuto che la sua storia ci poneva di fronte ad alcuni interrogativi: chi ha diritto di decidere se una vita è degna di essere vissuta?
All’1.45 di lunedì 13 novembre, le 2.45 ora italiana, la piccola Indi Gregory, la bimba inglese di otto mesi affetta da una grave malattia genetica incurabile di cui tutti abbiamo parlato nelle scorse settimane, è morta. L’annuncio è stato dato dal papà, Dean Gregory: «Io e mia moglie Claire siamo arrabbiati, affranti e pieni di vergogna», ha affermato.
La mamma «l’ha tenuta con sé per i suoi ultimi respiri». Indi è morta, ma sarebbe più opportuno dire che Indi ha smesso di soffrire. Già, Indi soffriva e lo faceva capire come fa ogni neonato: piangeva. Lo diceva chiaramente la sentenza che l’Alta Corte britannica ha emesso il 13 ottobre, firmata dal Giudice Robert Peel: «Indi prova un dolore significativo e stress molte volte al giorno, ed ogni episodio dura fino a dieci minuti. Le lacrime sgorgano dei suoi occhi».
Le omissioni
Di fronte al dolore di questa bambina che non poteva difendersi tutti avremmo dovuto usare la massima cautela, la massima sincerità e il massimo rispetto umano. Invece in questa triste storia molti hanno omesso informazioni, o peggio ancora manipolato la verità, per perseguire i propri scopi politici.
Alcuni hanno sostenuto che la storia di Indi Gregory ci poneva di fronte ad alcuni interrogativi. Chi ha diritto di decidere se una vita è degna o no di essere vissuta? E chi deve decidere della vita di una bambina di otto mesi? I suoi genitori, i medici, un giudice, oppure lo Stato?
Ma i quesiti erano mal posti e totalmente fuori luogo. Se qualcuno avesse raccontato la vera storia di Indi, senza omissioni o manipolazioni, avrebbe facilmente capito che la sostanza della questione era un’altra.
Le due sentenze
La storia di Indi – descritta nelle due sentenze dell’Alta Corte di Londra, firmate dal Giudice Robert Peel, che sono pubbliche e disponibili online – è riassumibile così. Indi era affetta da una gravissima malattia genetica – l’aciduria combinata D,L-2-idrossiglutarica – che le aveva provocato malformazioni profonde al cervello, al cuore, ai polmoni, all’intestino e a ogni altro organo del suo corpo.
La malattia genetica di Indi era inguaribile e stava diventando anche incurabile, difatti la povera Indi soffriva di crisi cardio-respiratorie ed epilettiche sempre più frequenti (aveva già subito tre arresti cardiaci), e i farmaci che le venivano somministrati stavano facendo sempre meno effetto. Indi era tenuta in vita solamente dalle macchine: i suoi polmoni erano malformati e la sua respirazione era insufficiente, perciò aveva bisogno della ventilazione artificiale tramite un tubicino infilato in una narice; era incapace di deglutire perciò doveva essere alimentata attraverso un sondino infilato nell’altra.
Indi aveva una limitatissima aspettativa di vita ed era destinata inevitabilmente alla morte. Ma la questione fondamentale era che nonostante i devastanti danni cerebrali tuttavia Indi provava dolore, e lo mostrava piangendo, e più la si teneva in vita più provava dolore. Provava dolore e piangeva a dirotto ogni volta che aveva una crisi epilettica – il che accadeva molte volte al giorno, provava dolore e piangeva ogni volta che la sua respirazione insufficiente faceva scendere l’ossigeno nel suo sangue al di sotto dei valori vitali – provava dolore e piangeva a dirotto ogni volta che I medici applicavano terapie e trattamenti necessari per la sua sopravvivenza.
E più i medici si accanivano per cercare di curare la povera indi, più Indi soffriva. Indi aveva crisi di pianto molte volte al giorno, che duravano fino a 10 minuti. Per alleviare le sue sofferenze, i medici erano costretti a somministrarle grandi quantità di farmaci antiepilettici, sedativi e antidolorifici oppioidi.
Perciò i medici avevano più volte consigliato di sospendere i trattamenti perché, come recita la sentenza, «Indi non ha prospettive di guarigione, la sua aspettativa di vita è molto limitata, i molteplici trattamenti che riceve le stanno causando alti livelli di dolore e di sofferenza, e Indi non mostra alcuna discernibile qualità di vita o interazione col mondo attorno a lei». Invece i genitori – evidentemente offuscati dal dolore o mal consigliati – volevano a tutti costi mantenere in vita la loro bambina, inguaribile e incurabile, che ogni giorno aveva crisi di dolore devastanti.
Perciò, quando l’ex senatore della Lega Simone Pillon, che fa parte del team legale che ha assistito i genitori di Indi, affermava: «Non si tratta di accanimento terapeutico, è una fake news. Non vi sono dolori né cure invasive, semplicemente c’è un aiuto alla respirazione. Il padre e la madre hanno chiesto di trasferire la bambina per provare a salvarla», non stava dicendo il vero. Si trattava di accanimento terapeutico, e Indi provava dolore.
La decisione reale
Quindi, il giudice non doveva stabilire chi debba decidere quando porre fine alla vita di un bimbo, se i genitori o i medici. Doveva decidere che cosa fare quando i medici sostengono che una bambina tenuta in vita solo da macchine e destinata alla morte soffre un dolore che sta diventando sempre più difficile da curare, perciò nel suo migliore interesse sarebbe meglio sospendere ogni trattamento che la tenga in vita, mentre i suoi genitori, contro ogni evidenza medica e scientifica, la vogliono tenere in vita a tutti i costi.
Anche se è la “loro” bimba non possono avere diritto di vita e di morte su quel piccolo essere. Scriveva il giudice: «L’interezza delle evidenze mediche sono unanimi. Indi sarà permanentemente intubata. Le sue condizioni sono irreversibili e incurabili. I trattamenti attuali causano ad Indi dolore, la espongono a procedure dannose e a terapie che non forniscono alcun beneficio a lungo termine. La sua aspettativa di vita è severamente limitata e non ci sono terapie curative. Non ci sono prove mediche del contrario offerte dai genitori».
Il giudice, poi, contrariamente a quel che hanno raccontato molti, aveva anche autorizzato i genitori di Indi ad ascoltare un secondo parere medico, a patto che esso fosse prodotto in tempi brevi (entro il 7 ottobre) perché Indi non poteva attendere: ma i genitori di Indi non lo presentarono mai. Perciò non è neanche esatto sostenere, come ha fatto il Ministro per le Pari Opportunità e la Famiglia Eugenia Roccella, che ai genitori di Indi «è stata purtroppo negata la libertà di cura».
Il giudice ha solo negato l’accanimento terapeutico contro Indi. E la ministra prosegue: «Si fa spesso confusione tra il concetto di guarigione e quello di cura. Ci sono tante malattie dalle quali non si può guarire, basti pensare alle malattie croniche, e comunque a tutte le diagnosi con esito infausto. Ma questo non significa che la persona non possa essere curata. Se la immagina una sanità dove ci si prende cura solo di chi ha una prognosi positiva?».
Il trasferimento
Anche qui ci sono imprecisioni. Come si può leggere nella sentenza di appello dell’8 novembre, il giudice Peel scrive che le condizioni di Indi stavano velocemente deteriorandosi, che «rimane in condizioni critiche, agitata e sofferente» nonostante le cure, che i trattamenti invasivi necessari per tenerla in vita le stavano procurando sempre più dolore, e che perciò Indi era sottoposta a sedazione continua ma stava diventando «altamente dipendente dalla sedazione e perciò ancor più a rischio».
Quindi Indi era inguaribile e anche incurabile, perché i trattamenti stavano avendo sempre minore effetto. Trasferirla in Italia l’avrebbe esposta a rischi e portato solo altro dolore. Ma per fortuna ora la povera Indi non soffre più.
© Riproduzione riservata