Un investitore francese, Vincent Bolloré, nel 2016 è arrivato a detenere il 29 per cento di Mediaset. Fininvest è si forte del suo 44 per cento circa, ma c'è un grosso intoppo; il 29 per cento dà al francese diritto di veto nell'assemblea straordinaria di Mediaset.
Bolloré è stato ostacolato dalla legge Gasaprri, dopo il suo investimento in Tim, ma ha ottenuto dalla Corte di giustizia europa (Ceg) una sentenza che dichiara la Gasparri incompatibile con il diritto europeo.
Il gruppo Mediaset è quindi entrato in agitazione, temendo gli effetti di un possibile via libera nella riunione del Tar del Lazio, prevista per metà dicembre, che recepirà la sentenza europea. Mediaset chiede aiuto e il senato, nello specifico il Pd, glielo garantisce.
È nei momenti più difficili che appare la vera tempra di un paese. Superare divisioni legate ai paraocchi ideologici mostra ai cittadini l'unità di intenti di una classe dirigente politica. Parliamo di Covid, o di come gestire i fondi in arrivo dalla Ue con il Next Generation Fund?
No, voliamo più in alto, nell'etere; si tratta infatti dell'emendamento “Salva Mediaset” testé approvato dall'aula del Senato, su proposta della relatrice, Valeria Valente, del Partito democratico. Esso vuole fermare l'esecuzione di una decisione della Corte Europea di Giustizia (Ceg) e distorcere le regole del mercato finanziario. Perché?
Dimenticate le trite pregiudiziali anti berlusconiane, Valente ha unito tutti, meno la Lega, per un nobile scopo: sottrarre Mediaset all'aggressione francese. Di tale (supposta) aggressione ha qui scritto Giorgio Meletti qualche giorno fa. Ora contro la campagna dei Galli si leva alfine un muro (o, forse meglio, un tramezzo). I miei ventiquattro lettori si armino di pazienza, qualche dettaglio farà meglio intendere la gravità della minaccia.
L’arrivo di Bolloré
Un investitore francese dalla meritata fama di speculatore svelto e rapace, Vincent Bolloré, nel 2016 è arrivato a detenere il 29 per cento di Mediaset. Fininvest è si forte del suo 44 per cento circa, ma c'è un grosso intoppo; il 29 per cento dà al francese diritto di veto nell'assemblea straordinaria di Mediaset.
Questa deve approvare, in straordinaria, l'ampio programma di ristrutturazione societaria in cui s'è imbarcata, comportante la fusione con le controllate spagnole e il trasferimento della sede all'estero; per la precisione nella linda Olanda, la cui frugalità si accorda con l'indole del Gran Capo solo se si tratta di pagare meno imposte e di moltiplicare i propri diritti di voto, in barba alle minoranze. Non è più necessario, a tal fine, accumulare denari, oscuri a fisco e azionisti, trafficando in diritti Tv; oggi si può farlo nei crismi della più frugale legalità.
Sia chiaro, la parvenue Mediaset segue la prassi inaugurata nel 2014 dai nobili lombi dell'allora gruppo Agnelli, cui critiche simili furono rivolte anche, nel suo minimo, da chi scrive. Per realizzare quei piani, però, l’allora amministratore delegato Sergio Marchionne non ebbe una clausola ad aziendam, come quella che, complice, ahimè, il Pd, il Senato ha approvato.
La trappola Gasparri
Questa è solo parte di una complicata storia. Bolloré già deteneva il 25 per cento di Tim, ex Telecom Italia. Qui è caduto in una trappola, tesagli dalla legge che conferì il laticlavio di legislatore a Maurizio Gasparri; essa preclude la presenza contemporanea, in posizioni rilevanti, nel settore Tv e nella telefonia.
Mediaset fece subito ricorso, chiedendo l'intervento dell'Autorità per le Garanzie nelle Telecomunicazioni, Agcom. Ai sensi della legge Gasparri, questa decise di limitare i diritti di voto di Vivendi al 10 per cento, congelando i voti del residuo 19 per cento.
Pur così privato di piume e artigli, il Gallo non si arrese, ottenendo alfine dalla Corte di giustizia europa (Ceg) una sentenza che dichiara la Gasparri incompatibile con il diritto europeo. I giudici han contestato non tanto il divieto di cumulo nei due settori, ritenuto in sé accettabile, quanto la mancanza di proporzionalità del divieto, rispetto al fine di garantire il pluralismo dei media.
Spetta ora al Tar recepire la sentenza della Ceg, dichiarandone l'immediata applicabilità in Italia, o rimandandola a fasi successive. Il gruppo Mediaset è quindi entrato in agitazione, temendo gli effetti di un possibile via libera nella riunione del Tar del Lazio, prevista per metà dicembre. Onde la necessità di un emendamento che, come direbbero gli inglesi, butta la palla nell'erba alta.
Mediaset chiede, Valente e il Senato concedono, sei mesi nei quali l'Agcom svolgerà un'istruttoria volta a «verificare la sussistenza di effetti distorsivi o di posizioni comunque lesive del pluralismo, sulla base di criteri previamente individuati, tenendo conto, fra l’altro, dei ricavi, delle barriere all’ingresso...».
Dopo lo scudo
Protetta da questo rinvio alle calende greche, con Vivendi bloccata al 10 per cento, Mediaset conta di far passare in sede straordinaria il suo programma di riorganizzazione. Il fine è lampante nelle volute del lessico dell'emendamento. Qualcuno potrebbe pensare che questo intenda indurre le parti ad un accordo che tenga conto dei reciproci interessi entro un chiaro quadro legislativo, ma il Tribunale di Milano ha già ripetutamente invitato le parti ad addivenire ad un accordo, senza risultati.
Ora nientemeno che il Senato della repubblica interviene in un tira e molla fra due parti in una guerra commerciale, a favore di una parte al momento soccombente, in contrasto con la posizione della Corte europea di giustizia.
Bollorè non è, come dicono i veneti, farina da far ostie, ma ciò non giustifica un esito come quello che si prospetta. Se, come in una dimostrazione matematica, eliminiamo i passaggi intermedi, andiamo al risultato finale. Il parlamento, dove governo e opposizione non dialogano su Covid e Next Generation Fund, approva quasi all'unisono una clausola volta a favorire una parte contro un'altra in una legittima contesa, per impedire l'esecuzione di una sentenza della Corte europea di giustizia; ciò dà modo alla parte da questa indebolita di resistere, attuando un piano di riorganizzazione che, per la sentenza della Ceg, non dovrebbe avere corso, almeno ora.
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