Pete Wells ha annunciato che non scriverà più di ristoranti per il New York Times. Il più famoso, a tratti temuto critico del mondo si ritira: «I risultati delle mie analisi del sangue erano pessimi: il colesterolo, la glicemia e l’ipertensione erano peggiori di quanto mi aspettassi anche nei momenti più pessimisti. Si parlava di pre-diabete, malattia del fegato grasso e sindrome metabolica. Ero tecnicamente obeso». Lo ha fatto con un articolo pubblicato sul sito del quotidiano lo scorso 16 luglio: «Ho deciso di smettere di fare quello che faccio con tutta la grazia che il mio stato di obesità tecnica mi consente». L’intenzione è quella di pubblicare qualche recensione fino alla fine di agosto per poi continuare a collaborare con il Times, ma non nella stessa veste.

Pete Wells ricopre questo ruolo dal 2011, unico fino a ora ad averlo fatto per più di un decennio: un periodo di tempo molto considerevole, che richiede di scrivere recensioni su base settimanale relative a tutte le nuove e più importanti aperture della città, oltre alle tante ricerche per stilare classifiche annuali come la famosa The 100 Best Restaurants in New York City. Era succeduto a Sam Sifton, che aveva iniziato nel 2009. Prima ancora critico del più diffuso quotidiano della città era Frank Bruni, che in un post sul suo blog aveva annunciato, ai tempi, di avere la gotta. Una malattia conosciuta sin dall’antichità, che nel nel passato era considerata patologia tipica dei ricchi perché colpiva chi poteva permettersi con particolare frequenza pasti molto succulenti.

Un ruolo, insomma, che richiede grandi sacrifici dal punto di vista fisico ancora prima che da quello mentale. Ne sa qualcosa Ruth Reichl, giornalista che ha occupato la stessa posizione dal 1993 al 1999 e che ha affidato i suoi ricordi al libro di successo Aglio e zaffiri, vita segreta di una gastronoma mascherata, pubblicato in Italia nel 2005 da Ponte alle Grazie.

Parlarne

«Una cosa di cui non parliamo quasi mai è la nostra salute», ha scritto Pete Wells. «Evitiamo di parlare di peso come gli attori evitano di dire Macbeth. In parte lo facciamo per educazione. Per lo più, però, sappiamo tutti che siamo in piedi sul bordo di un buco infinitamente profondo e che se guardiamo giù potremmo caderci dentro». Un approccio simile a quello che caratterizza il mondo della critica del vino. Un esempio: sappiamo tutti benissimo quanto anche solo assaggiare in serie, senza deglutire, sia stressante per il fisico. Vale per pochi giorni, figuriamoci per quelle persone che lo fanno a tempo pieno o quasi, che quindi degustano in continuazione per settimane o per mesi.

Ma è discorso che è possibile allargare, e di molto: non solo chi scrive di vino ma anche chi lo produce, chi lo commercia, chi lo vende, in generale chi lavora in questo mondo (molte decine di migliaia di persone in Italia) è sottoposto a una quantità di sollecitazioni alcoliche impossibili da immaginare per il consumatore occasionale. Assaggiare quotidianamente è lo standard. Bere più di due bicchieri, quindi superare la soglia del consumo moderato secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, è comunissimo. Bere anche (molto) di più tutt’altro che raro. Ma la situazione nel settore non è rosea. Nel 2023 Assoenologi, la più importante associazione di categoria, aveva dedicato un simposio a “Vino e salute, tra alimentazione e benessere”.

Un appuntamento non pensato per riflettere, come industria, sui rischi legati all’abuso di vino ma per difendere il settore dai «folli attacchi (come quello a loro dire rappresentato dall’Oms, nda) che rischiano di creare seriamente dei danni inestimabili al vino, patrimonio della nostra storia e tradizione culturale e gastronomica». Sarebbe auspicabile il contrario: abituarci come operatori del settore a confrontarci anche con esponenti del mondo della medicina sui rischi legati a un consumo costante e prolungato di bevande alcoliche.

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