Il promotore di giustizia vaticano ha chiesto di condannare tutti e 10 gli imputati coinvolti nelle indagini, ma per il cardinale è stato usato un trattamento particolarmente duro. Complessivamente le richieste raggiungono i 73 anni di reclusione. Il rischio è che il processo sia servito soprattutto a mostrare all’opinione pubblica il nuovo corso vaticano in materia di trasparenza finanziaria
Le richieste di condanna del promotore di giustizia vaticano Alessandro Diddi al processo per le presunte frodi realizzate con i fondi della segreteria di Stato in un investimento immobiliare a Londra, sono pesanti e toccano, sia pure con pene di diversa entità, tutti e 10 gli imputati.
Complessivamente l’accusa ha chiesto 73 anni e un mese di reclusione, più pene interdittive e pecuniarie di vario tipo; 7 anni e tre mesi la richiesta avanzata per il cardinale Angelo Becciu (per il quale, è stato precisato, è stato adottato un criterio punitivo rispetto ad altri imputati); per il finanziere Raffaele Mincione sono stati chiesti 11anni e 5 mesi; per Fabrizio Tirabassi, ex funzionario dell’ufficio amministrativo della Segreteria di Stato ex funzionario dell’ufficio amministrativo della segreteria di Stato,13 anni e 3 mesi, per il broker Gianluigi Torzi 7 anni e 6 mesi di reclusione, per Cecilia Marogna, sedicente esperta di geopolitica e intelligence, 4anni e 8 mesi, solo per citare alcune delle richieste più pesanti.
La Segreteria di Stato
Del resto le premesse c’erano tutte e non poteva essere diversamente: la struttura stessa dell’accusa collegava tutti i personaggi chiamati in causa in un unico disegno criminoso, tale che, se si fosse sfilata una sola tessera del puzzle, facilmente sarebbe saltato l‘intero quadro.
Forse anche per questo il promotore di giustizia ha messo le mani avanti durante la requisitoria, dicendo che dietro le indagini non c’è alcun teorema giudiziario ma una solida ricostruzione fondata su fatti e documenti.
Allo stesso tempo Diddi ha anche respinto la «rappresentazione mediatica secondo cui questo sarebbe un processo alla segreteria di Stato: non è mai stato questo l'intendimento dell'Ufficio del promotore di giustizia, anche se la perquisizione iniziale è stata qualcosa di storico, in quello che era una sorta di giardino proibito».
È stato piuttosto un processo a delle persone, a dei funzionari, o settori, «che non hanno capito quel è la missione della Chiesa, a cui avrebbero dovuto attenersi anche nello svolgimento del servizio». Eppure qualche dubbio resta proprio a partire dalle parole dello stesso Diddi con quel riferimento al «giardino proibito»; il tema di contrasti interni al Vaticano fra diversi organismi impegnati nella gestione delle finanze del papa resta sullo sfondo dell’intera vicenda.
Becciu, il super imputato
Se tuttavia non si può parlare di processo alla segreteria di Stato, certamente emerge dall’impostazione della requisitoria come il punto di caduta di tutta la faccenda sia il ruolo ricoperto da Becciu, assurto a regista machiavellico di un’impresa criminale di primo piano stando alle parole del promotore di giustizia.
All’epoca dei fatti contestati, era sostituto della segreteria di Stato, uno degli incarichi apicali nella gerarchia vaticana. Sarà la sentenza a stabilire il grado di colpevolezza del cardinale nei vari filoni del processo che lo riguardano da vicino, resta però l’impressione che per lui sia stato usato un trattamento del tipo: punirne uno per educarne cento.
Il castello accusatorio pur circostanziato delineato nei suoi confronti, infatti, tende, un po’ inspiegabilmente, ad arenarsi improvvisamente quando si tratta di toccare altri funzionari vaticani di grado medio-alto e le loro possibili responsabilità.
In questo senso, durante la requisitoria lo stesso Becciu è stato fin troppo mostrificato e reso diabolico, non solo: «La strategia del cardinale Angelo Becciu – osservava Diddi ancora martedì scorso durante la requisitoria – è che bisogna interferire con le indagini, non interagire con i magistrati. Questo è stato il suo modus operandi, sempre, da subito fino ad oggi».
Tuttavia a giudicare dalle tante chat di cui si è avuta notizia, delle goffe telefonate al papa da cui emerge il tentativo di trarre un surrettizio sostegno alle proprie ragioni, il cardinale sembra più che altro il classico esponente di una curia abituato ad agire in nome della Santa sede senza guardare troppo per il sottile quando si tratta di investimenti finanziari.
Del resto così hanno fatto tutti per diversi decenni, e ora adeguare anche il Vaticano a comportamenti virtuosi, rispettosi di regolamenti e leggi internazionali, non è opera semplice né scontata per quante norme a raffica, attraverso “motu proprio”, produca il papa per adeguare le finanze e la giustizia d’Oltretevere al mondo che si estende fuori dalle mura leonine.
Investimenti immobiliari
Per questo resta l’impressione che il processo svoltosi in Vaticano sia dovuto anche all’intenzione di mostrare all’opinione pubblica e agli organismi sovranazionali come agli enti di controllo dei vari paesi che stanno supervisionando la reale capacità dei sacri palazzi di andare fino in fondo nella lotta al riciclaggio e alla corruzione, che da parte della Santa sede la svolta è reale.
Resta da dire che la vicenda della compravendita del palazzo di lusso situato in Sloane Avenue a Londra, non è una rarità nelle modalità scelte dalla Santa sede per far quadrare i conti. Certo, se la gestione dell’affare londinese è stata fonte di reati anche gravi è altra cosa, vale la pena però ricordare quanto si leggeva nel bilancio dell’Apsa del 2020 (Amministrazione patrimonio sede apostolica, il dicastero che gestisce gli investimenti della Santa sede).
«È anche grazie agli affitti a prezzo di mercato riscossi sugli immobili di prestigio posseduti a Parigi e Londra che è possibile concedere in comodato d’uso gratuito all’Elemosineria apostolica una struttura come palazzo Migliori, dove trovano accoglienza, a due passi dal colonnato di San Pietro, i senza fissa dimora ospitati dai volontari della Comunità Sant’Egidio. Inoltre con l’acquisto di un immobile nei pressi dell’Arco di Trionfo a Parigi, grazie alla mediazione della Sopridex, il venditore ha indirizzato una parte del ricavato di quest’operazione per la costruzione di una chiesa in una banlieue parigina».
In generale, poi, si apprendeva che l’Aspa possiede, oltre a un cospicuo patrimonio immobiliare in Italia, «circa 1.200 unità immobiliari gestite all’estero (Londra, Parigi, Ginevra e Losanna) e in Italia dalle società partecipate».
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