Nell’impresa collettiva di girare un film, il cibo è fondamentale per mantenere il buon umore e favorire la cooperazione. Le complicazioni per chi lavora nel settore sono tante, dai capricci dei registi alle location remote. Ma per chi impara a gestire gli imprevisti è facile guadagnarsi la fiducia delle produzioni
«Il pudding è nemico della creatività». Con queste parole il regista Ken Loach ha impedito all’attore Dave Johns, protagonista del film I, Daniel Blake, di mangiare il dolce preparato per la troupe. Secondo il cineasta inglese abbuffarsi ottunderebbe il talento.
E dire che in Una giornata particolare di Scola Marcello Mastroianni diede una delle sue interpretazioni più riuscite, pur mangiando spesso la pasta e fagioli che Sophia Loren portava sul set per deliziare le maestranze.
Opinioni artistiche a parte, per quell’impresa collettiva che è girare un film, il cibo non solo è necessario per reggere le lunghe ore di lavoro, che magari si ripetono per mesi, ma è anche fondamentale per mantenere il buonumore e favorire la cooperazione tra gli addetti ai lavori. Il problema è che chi si occupa del catering di un film deve soddisfare esigenze nutrizionali, ma anche rispondere agli eventuali capricci della troupe, adeguarsi agli imprevisti della produzione e adattarsi a condizioni di lavoro estremamente complicate.
Difficile equilibrio
Per esempio, per il film L’impero del sole di Stephen Spielberg, girato a Shanghai, l’allora responsabile del catering Robin Demetriou ha dovuto spedire il necessario dall’Australia e dalla Nuova Zelanda via Hong Kong. Lo ha fatto per tutto il cibo, inclusa ogni patata, mela, uovo, pezzo di carne e pesce atti a sfamare circa 400 persone al giorno. Il mercato locale non era in grado di fornire abbastanza per alimentare il gruppo, e così, preoccupato che i piatti locali non piacessero agli occidentali, Demetriou ha pianificato le spedizioni sei mesi prima dell’inizio delle riprese.
Per nutrire nel deserto di Abu Dhabi la troupe di Star Wars Episode VII: Il risveglio della Forza (2015) gli chef dell’americana Fibbers Catering di Mark Hutton hanno lavorato a 40 gradi, raggiunti nonostante l’aria condizionata. Il supermercato più vicino era a due ore di distanza e tutto era preparato sul posto. Una faticaccia che ha raccolto le lodi dello staff, mentre Hutton non ha mai incrociato le superstar del film: «Tutti i grandi attori hanno un assistente personale e a volte anche lo chef personale» ha spiegato Hutton.
«Le star generalmente non mangiano al buffet. Mandano gli assistenti a chiedere qualcosa di specifico e lo consumano in camerino, anche se, in realtà, fanno tutti mega diete». In compenso sono numerosi i racconti dell’orrore di chi ha a avuto a che fare direttamente con le celeb internazionali, come quelli (anonimi) di chi si è visto richiedere che le foglie dell’insalata fossero strappate anziché tagliate per «non rovinare il karma della lattuga», o ha dovuto preparare «11 anacardi crudi», o «frittate cotte solo in padelle nuove di zecca» o un piatto di frutta biologica composto di cinque frutti tagliati in cinque modi diversi.
Richieste bizzarre
Anche a Marco Saccani, fondatore di CineQcine catering, azienda che, oltre a lavorare per show tv come Il Grande Fratello, ha servito il team del film Ferrari di Michael Mann, sono arrivate richieste bizzarre, come «usare salviette di specifiche misure quando eravamo persi nel nulla, o procurare quattro tipi di mele introvabili in Italia».
Però, a parte il fatto che «spesso sono gli agenti a fare le richieste, e non le star, le richieste “speciali” servono a segnalare agli altri uno status, non hanno senso in sé», chiosa l’esperto. «In genere gli attori più famosi ci mandano la loro dieta, con eventuali allergie e preferenze, prima di iniziare le riprese e noi ci adeguiamo. Però negli ultimi 25 anni tutti ormai sono diventati intolleranti a qualcosa. A volte abbiamo visto anche sedicenti celiaci che, dopo averti fatto impazzire, di sabato mangiano la pizza e ti dicono: “Sai, il glutine mi ingrassa”. Altre volte ci fanno richieste non esaudibili come niente piselli o no pomodori. Le persone sono viziate da troppa scelta, ma non possiamo fare ogni giorno 40 menù diversi».
Fa la differenza anche il modo in cui il “ristoratore” è chiamato a sfamare attori e lavoranti. L’opzione più semplice (ed economica) è il cosiddetto cestino: un lunchbox, in realtà, etichettato secondo più colori. Il cestino rosso è quello più nutriente, con lasagne e piatti elaborati per chi fa lavori di fatica, come i macchinisti. Il verde è un pasto leggero per vegetariani/vegani; il bianco è l’opzione light, con riso basmati, petto di pollo od orata, il giallo è per celiaci. «Il vantaggio del cestino è che non ci sono sprechi, perché produci in base al prenotato.
Quando invece prepari un buffet, con piatti caldi e freddi, snack per la merenda e servizio di caffetteria, devi calcolare il 30 per cento in più del necessario perché qualcuno può mangiare più del previsto. E la scarsità crea scontento e lo scontento guai con la produzione», dice Saccani, che ogni giorno fa fotografare dai suoi dipendenti il buffet, per evitare di smentire con i suoi committenti che su un tavolo stracolmo «non ci fosse nulla da mangiare».
Un altro possibile motivo di discussioni è il numero dei convitati. «A volte riceviamo richieste per, mettiamo, 100 persone. Ma poi ci dicono che sul set sono andati solo in 90 e vogliono pagare solo per quelli effettivi. Con margini di guadagno attorno al 10-12 per cento sul totale, è bene chiedere sempre un minimo garantito», chiosa Saccani.
Oltre a cosa preparare, occorre sapere quando e dove farlo. Sui set la giornata di lavoro dura in media nove ore (in Italia) e 12+1 (in Usa). Ma si sfora facilmente, anche perché, «se lo staff inizia a lavorare alle otto, tu devi comunque fornire agli attori, che vanno al trucco alle sei, colazione e caffè».
Poi c’è il problema del dove. David Mintz, che ha lavorato sui set di Suicide Squad e Spotlight ha dovuto adeguarsi a 72 cambi di location in 58 giorni di riprese e allestire tende per mangiare sotto furiose tempeste di neve. «Una volta stavo allestendo buffet in montagna, ma il regista ha deciso di mangiare più in alto, dove il panorama era migliore. Ho dovuto chiudere i cassoni e ripristinare ex novo il tavolo a 1800 metri», rincara Saccani.
E se in una città l’approvvigionamento non è complicato, in una località più isolata è necessario portare con sé la dispensa per una settimana o due. «Sul territorio prendiamo solo frutta, verdura e panificati e contiamo su fornitori che ci consegnano fino a due volte la settimana in tutta Italia», aggiunge Saccani.
L’imprevisto però, è dietro l’angolo: «A Favignana le consegne arrivano solo il giovedì, e devi calcolare cosa ti serve in caso di mare mosso». Gli è capitato però di restare senza acqua e quindi «di dover comprare il ghiaccio nei bar per farlo scongelare al sole in modo da cucinare la pasta per 300 persone». In compenso, «se impari a gestire gli imprevisti, le produzioni si fidano e difficilmente cambiano fornitori. Non possono permettersi dilettanti allo sbaraglio» confessa Saccani.
In questo modo il lavoro diventa continuativo, anche se dislocato in luoghi molto lontani tra loro: per questo il personale ancora si trova, in particolare tra cinquantenni divorziati che non hanno legami e che, se viaggiano hanno vitto, alloggio e trasferta pagati. In più, c’è la soddisfazione di fare da collante tra le persone, finendo per costituire una grande famiglia allargata del cinema, che si riunisce in occasione dei pasti.
«Ogni produzione è una nuova avventura. All’inizio sembra regnare il disordine. Ma il cibo ha il grande potere di far funzionare un set», rimarca Saccani. Non a caso, un grande attore come Michael Caine sostiene di rivolgere solo due domande a chi gli offre una parte. «La prima è: “Dove si gira?”. E la seconda: “Chi si occupa del catering?”».
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