«Vendola Nicola: affermazione penale di responsabilità per il reato ascritto allo stesso al capo di imputazione Cc e pena finale di anni cinque di reclusione», più o meno tanto quanto è durato finora Ambiente svenduto, il maxiprocesso all’Ilva dei Riva che andrà a sentenza in primavera. È la parte del processo che tocca le distrazioni, se non le complicità, della politica.

Perché lo scorso mercoledì la Procura di Taranto ha chiesto una condanna così dura per l’ex governatore della Puglia? Secondo i magistrati, Vendola avrebbe commesso il reato di concussione in concorso con Fabio Riva, l’azionista, e con il responsabile relazioni esterne Ilva, Girolamo Archinà, il direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso e l’avvocato Francesco Perli.

L’obiettivo? Aiutare l’acciaieria a «proseguire l’attività produttiva ai massimi livelli, senza dover subire riduzioni o rimodulazioni», assicurando all’associazione per delinquere che ne sarebbe stata alla guida l’impunità per un lungo elenco di reati, dal disastro ambientale alla rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro. Contestazioni gravi che, attribuite a un leader di sinistra quale è stato Vendola, suonano ancora più pesanti.

Le parole dei politici

I fatti risalgono al 2010. Con una nota del 21 giugno l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente (Arpa) comunica che i campionamenti eseguiti sulla qualità dell’aria a Taranto hanno evidenziato valori estremamente elevati di benzo(a)pirene, per cui la produzione del siderurgico dovrebbe essere ridotta o rimodulata in modo da diminuire le emissioni nocive.

A capo dell’Arpa Puglia c’è il professor Giorgio Assennato che ha l’incarico in scadenza e attende la riconferma. In quel momento è in vacanza, per cui il documento lo firmano due suoi collaboratori. Secondo l’accusa, Vendola «abusando, su determinazione degli altri, della sua qualità di presidente», avrebbe costretto Assennato ad «ammorbidire» la posizione di Arpa.

Tre i passaggi cruciali indicati dall’accusa. Il primo è un incontro del 22 giugno 2010 con Archinà, in cui un Vendola «imbestialito» avrebbe fortemente criticato l’operato dell’agenzia, «esprimendo al contempo disapprovazione, risentimento e insofferenza verso il predetto ufficio e i funzionari che vi prestavano servizio», tanto da sostenere che «così com’è Arpa Puglia può andare a casa perché hanno rotto…» e ribadendo che in nessun caso l’attività dell’Ilva avrebbe dovuto subire ripercussioni.

Il secondo passaggio è del 23 giugno: secondo la ricostruzione Massimo Blonda, collaboratore di Assennato, sarebbe stato convocato in Regione per assicurarsi che il messaggio fosse stato ben compreso. Infine, il 15 luglio 2010, in occasione di una riunione informale con Emilio e Fabio Riva, Archinà e Capogrosso, Assennato, pur essendo tra i convocati, sarebbe stato lasciato fuori dalla stanza, come un cane all’ingresso del supermercato, mentre il dirigente Antonicelli, su mandato di Vendola, lo avrebbe ammonito a non utilizzare i dati contenuti nella relazione del 21 giugno come «bombe carta che poi si trasformano in bombe a mano».

Corto circuito

Il botta e risposta in udienza tra il pm Epifani e l’imputato Vendola è un esempio del corto circuito che di solito avviene quando magistratura e politica si incrociano: il primo lo incalzava da accusatore, il secondo gli rispondeva con la logica politica. Quando il pubblico ministero gli ha chiesto di spiegare che rapporto ci fosse tra le possibili conseguenze della nota Arpa e il caso dei somministrati Ilva (i precari che l’azienda avrebbe potuto stabilizzare), Vendola gli ha risposto: «È difficile che mentre mi sta dicendo “Stiamo per chiudere l’Ilva”, in quel momento io gli dica “Beh, non li assumete quei 616 lavoratori?”».

In ballo, contemporaneamente alla questione dei somministrati, c’era anche quella dell’installazione in Ilva delle centraline per il monitoraggio diagnostico, che Eni e Cementir si erano già comprate: «Era fare bingo se portavo a casa entrambe le cose. Non so se mi spiego». Senza contare, ha ricordato l’ex presidente della Puglia, che «se io faccio il provvedimento di chiusura delle cokerie, quanti secondi dura di fronte al Tar di qualunque parte del mondo se non ho il monitoraggio diagnostico e se non ho la prova scientifica su qual è la fonte emissiva?».

Assennato, sentito al processo nell’udienza successiva, ha rincarato: «Se la regione avesse deciso di seguire le indicazioni della nota del 21 giugno (…), questo atto sarebbe stato ovviamente implacabilmente impugnato dall’Ilva, e l’Ilva avrebbe vinto al Tar di Lecce».

C’è poi la famosa intercettazione in cui Vendola ricorda di aver detto ad Archinà, nel corso di una telefonata avvenuta la sera del 6 luglio 2010, «Guardi, dica ai Riva che non mi sono dimenticato dell’impegno di fare questa riunione (quella che poi si terrà il 15 luglio, ndr). Ci vediamo quanto prima»; Epifani lo incalza: «Non mi sono defilato, diceva», e Vendola replica: «Ma significa questo: non mi sono dimenticato».

Vivisezionare le parole di un politico in cerca di un significato chiaro è materia scivolosa. «Sono riunioni in cui, mentre stai cercando di portare a casa dei risultati, c’è anche un po’ il gioco delle parti nei toni e negli argomenti che si adoperano», ha spiegato Vendola per chiarire la frase sulle bombe carta che diventano bombe a mano.

Pressioni

Per questa vicenda, sul banco degli imputati è finito anche Assennato: per lui – che con i Riva non è mai stato tenero – l’accusa ha chiesto un anno di reclusione: sentito dalla polizia giudiziaria come persona informata sui fatti, avrebbe reso «dichiarazioni mendaci e reticenti», dichiarando falsamente di «non aver mai avuto nessuna pressione e nessuna intimidazione» e di «non ricordare assolutamente nulla» della riunione del 15 luglio. Di qui l’accusa di favoreggiamento a vantaggio dell’ex presidente: Assennato, ha detto il pm Epifani nel corso della sua requisitoria, avrebbe «molto sofferto» la «pesantissima intercessione» di Vendola a favore dell’azienda. Un fatto che Assennato smentisce su tutta la linea: «Il 15 luglio la regione prende una via, io ne prendo atto, perché la competenza non era dell’Arpa, semmai ero io che esercitavo una pressione indebita nei confronti dell’ente giuridicamente titolare ad assumere le decisioni, che è la regione», ha rivendicato il professore rispondendo al pubblico ministero, con il tono di chi non ammette repliche.

Tribuna politica in tribunale

Tra gli avvocati di parte civile che hanno chiesto di controesaminare Vendola c’è stata anche Anna Mariggiò, per la Federazione dei Verdi. «Io ho due lettere che le sono state comunicate da Angelo Bonelli, con cui le veniva chiesto di attivare una indagine epidemiologica per la città di Taranto. Come mai lei non ha mai dato avvio a queste indagini?».

Quando Vendola ha risposto, sembrava che non aspettasse altro: «Fino al 2010, per tutta la mia legislatura, non c’è un solo atto – né in Giunta, né in Consiglio Regionale – che porti la firma dei Verdi sul tema dell’Ilva. Non un solo atto! (…) Ritenevo indegno di una mia risposta l’onorevole Bonelli per il carattere assolutamente strumentale della sua presenza».

La posizione di Fratoianni

Tra le condanne richieste dai pubblici ministeri c’è anche quella a otto mesi di reclusione per Nicola Fratoianni, sempre per favoreggiamento nei confronti di Vendola: l’attuale leader di Sinistra italiana all’epoca dei fatti contestati era da pochi mesi assessore regionale alle Politiche giovanili, all’attuazione del programma e alla cittadinanza sociale. Secondo i magistrati, avrebbe aiutato Vendola «ad eludere le investigazioni dell’Autorità» negando i fatti del 22 giugno e del 15 luglio 2010. In udienza, Fratoianni ha risposto alle domande del pm Epifani confermando quanto dichiarato all’epoca: «(Nella riunione del 15) non avevo nessuna percezione che (fuori dalla stanza) ci fosse Assennato, non era convocato a quella riunione, anche perché l’Arpa era un ente terzo indipendente, dunque difficilmente convocabile in contesti in cui la natura della discussione ha un approccio di carattere almeno anche politico».

Gli altri politici

L’accusa ha chiesto pene severe anche per altri imputati che all’epoca ricoprivano incarichi istituzionali: quattro anni di reclusione per Giovanni Florido, ex presidente della Provincia, e per l’assessore a Ecologia e Ambiente della sua Giunta, Michele Conserva, a fronte di un’accusa di concussione in concorso sempre con Archinà; avrebbero fatto pressione su Ignazio Morrone, dirigente del settore Ecologia della Provincia, affinché Ilva potesse ottenere, pur non avendone i requisiti, l’autorizzazione all’esercizio di una discarica interna per rifiuti speciali, la Mater Gratiae. La richiesta arriva nonostante che la ricostruzione fatta dall’accusa sulla base di una serie di intercettazioni, che portarono all’arresto di Florido – una vita da stimato sindacalista nella Cisl – sia stata messa a dura prova da quanto emerso in udienza, fra trascrizioni errate e toni fraintesi. Prescritto invece il reato di abuso d’ufficio di cui era imputato l’ex sindaco di Taranto, Ippazio Stefàno: era accusato di non aver preso provvedimenti contingibili e urgenti sulle criticità ambientali relative all’acciaieria, a dispetto della denuncia presentata dallo stesso Stefàno presso la procura della Repubblica.

 

© Riproduzione riservata