Stefano Merler, direttore del centro di ricerca per le emergenze sanitarie della Fondazione Bruno Kessler, aveva trasmesso le stime di sviluppo dell’epidemia ai suoi interlocutori della Regione Lombardia: una mail «confidenziale» che Domani ha potuto leggere, rimasta finora riservata e acquisita agli atti dell’inchiesta della Procura di Bergamo per epidemia colposa e falso
- Considerando i casi sintomatici registrati nei tre focolai allora individuati, Codogno, Bergamo e Cremona, la stima del tasso di riproduzione (Rt) del contagio per l’intera Lombardia in quel momento è di 2.1, addirittura più alto di quello di Bergamo o di Codogno (rispettivamente 1.80 e 1.84), che è appena entrata in zona rossa.
- In poche parole, secondo quei calcoli, l’epidemia sarebbe fuori controllo in tutta la regione già alla fine di febbraio, anche perché «alcuni casi sparsi qua e là non sono associati a nessuno dei tre cluster», precisa Merler.
- Ma qualcosa si deve essere interrotto nella catena di comunicazione tra Milano e Roma. In quegli otto giorni quante vite si sarebbero potute salvare?
«Poi fatemi sapere a chi comunicare ’ste cose». È il 28 febbraio 2020, una settimana dopo il primo caso di coronavirus diagnosticato a Codogno, nel Lodigiano. Sembra quasi sconsolato Stefano Merler, direttore del centro di ricerca per le emergenze sanitarie della Fondazione Bruno Kessler, mentre trasmette le stime di sviluppo dell’epidemia ai suoi interlocutori della Regione Lombardia: una mail «confidenziale» che Domani ha potuto leggere, rimasta finora riservata e acquisita agli atti dell’inchiesta della Procura di Bergamo per epidemia colposa e falso.
In quei giorni confusi di febbraio nessuno, nemmeno il più esperto epidemiologo, vuole ammettere a se stesso che la Lombardia è già entrata con i motori a tutta forza in una tempesta perfetta. Ma Merler è uno scienziato e i suoi numeri parlano chiaro. Li mette nero su bianco.
Rt fuori controllo
Considerando i casi sintomatici registrati nei tre focolai allora individuati, Codogno, Bergamo e Cremona, la stima del tasso di riproduzione (Rt) del contagio per l’intera Lombardia in quel momento è di 2.1, addirittura più alto di quello di Bergamo o di Codogno (rispettivamente 1.80 e 1.84), che è appena entrata in zona rossa.
In poche parole, secondo quei calcoli, l’epidemia sarebbe fuori controllo in tutta la regione già alla fine di febbraio, anche perché «alcuni casi sparsi qua e là non sono associati a nessuno dei tre cluster», precisa Merler.
La lettera è indirizzata alla direzione generale di Areu, l’azienda regionale di emergenza e urgenza della Lombardia guidata da Alberto Zoli (che è anche membro del Cts nazionale), al direttore sanitario di Areu Giuseppe Maria Sechi. Contattati da Domani, i destinatari della mail hanno preferito non commentare.
Inoltre è stata inviata anche a due accademici dell’università statale e della Bocconi di Milano che collaborano alle proiezioni statistiche.
Le pressione industriali
Ma la Lombardia non verrà chiusa fino al successivo 8 marzo. Gli industriali lombardi chiedono al governo una «rapida normalizzazione» e il loro presidente, Marco Bonometti, suggerisce di «abbassare i toni e far capire che la gente può tornare a vivere come prima».
In quei giorni infuria la campagna «Milano non si ferma», promossa dal Partito Democratico. Il segretario Nicola Zingaretti il 27 febbraio è a Milano per il famoso «aperitivo contro il panico» sui navigli. Lo stesso accadrà anche a Bergamo, a Brescia, a Cremona.
Errori di cui i politici si sono scusati: nessuno riusciva a comprendere allora - hanno poi spiegato facendo mea culpa - la portata della tragedia che l’Italia stava per affrontare. Ma cosa succede invece in quei giorni negli uffici della Regione Lombardia? I dati mostrati da Merler vengono comunicati a Roma? Qualcuno li trasmette al ministero della Salute e al Cts?
Di sicuro c’è che non solo non verrà deciso il lockdown della Lombardia, ma nemmeno delle zone in cui il contagio stava correndo più veloce, Alzano Lombardo e Nembro, nella Bergamasca.
«Non sapevo»
«Non sapevo che avremmo potuto istituire noi la zona rossa», dirà ai magistrati l’assessore al Welfare, Giulio Gallera. La sera del 3 marzo a Roma il Cts valuta i dati relativi ai due paesi della Val Seriana e decide di chiamare al telefono l’assessore Gallera e il direttore generale della sanità lombarda, Luigi Cajazzo. I quali confermano agli esperti «i dati relativi all’aumento nella regione e, in particolare, nei due comuni» bergamaschi: l’indice di riproduzione è «sicuramente superiore a 1», si legge nel verbale del Cts.
La proposta è quindi di istituire una zona rossa analoga a quella stabilita a Codogno e a Vo’ Euganeo, in provincia di Padova. Perché nessuno dice con chiarezza che da giorni si ipotizza che in tutta la Lombardia l’Rt possa essere ben superiore ad 1?
Rileggendo oggi quei verbali appare chiaro inoltre che il Cts ritiene i contagi nella Val Seriana riconducibili «ad un’unica catena di trasmissione», proponendo criteri di valutazione diversi invece per le città più grandi in cui sono presenti «importanti hub ospedalieri».
Ma ad Alzano Lombardo un ospedale c’è, anche se a Roma sembrano ignorarlo. È proprio quel «Pesenti Fenaroli» dove, fin dal 23 febbraio, si presentano i primi casi sospetti di Covid che determineranno un disastroso contagio ospedaliero.
La mancata chiusura dell’ospedale di Alzano è ora al centro dell’inchiesta della Procura di Bergamo, che ha iscritto nel registro degli indagati l’allora direttore della sanità Cajazzo e altri quattro dirigenti regionali.
Ora sappiamo che c’erano, negli uffici chiave della Regione Lombardia, persone a conoscenza della gravità della situazione fin dal 28 febbraio, ben prima del decreto che l’8 marzo chiuderà la Lombardia due giorni prima del lockdown nazionale.
Ma qualcosa si deve essere interrotto nella catena di comunicazione tra Milano e Roma. In quegli otto giorni quante vite si sarebbero potute salvare?
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