Pubblicata l'enciclica Fratelli tutti che il papa ha firmato ad Assisi sulla tomba di san Francesco. Un testo che ha tre caratteristiche più rilevanti della cornice in cui è stato varato e apre un percorso che per la chiesa sembra più difficile ma che oggi è più urgente intraprendere
- Sabato 3 ottobre, sulla tomba di San Francesco ad Assisi, papa Francesco ha firmato la sua ultima enciclica che si intitola Fratelli tutti.
- Il testo ha tre caratteristiche rilevanti: il papa dichiara ancora una volta chi è l’interlocutore col quale dialoga; è stato spiegato il processo redazionale dell’enciclica; viene valorizzato il magistero delle conferenze episcopali come fonte dotata di autorità dottrinale.
- La valorizzazione delle conferenze episcopali, ortogonale rispetto alla minimizzazione che ne faceva l’ecclesiologia ratzingeriana, è decisiva ed è il nucleo della riforma della chiesa bergogliana.
E alla fine Fratelli tutti, l’enciclica firmata ad Assisi sulla tomba di san Francesco, è stata resa nota e ha tre caratteristiche più rilevanti della cornice in cui è stata varata. La prima è che è una enciclica in cui, ancora una volta, il papa dichiara da dove ha preso le mosse e chi è, al fondo, l’interlocutore col quale dialoga. Per Laudato si’ era stato il patriarca ecumenico Bartholomeos, successore dell’apostolo Andrea e fratello dell’apostolo Pietro, primo nell’onore fra i patriarchi dell’ortodossia, figura chiave del dialogo ecumenico e della pace fra le chiese. Per Fratelli tutti è il grande imam Ahmad Al-Tayyeb, guida dell’università di al-Azhar, difensore delle pene più severe contro i musulmani “apostati”, ma che aveva preso le distanze dal terrorismo suicida islamista. Con Al-Tayyeb il papa aveva firmato una dichiarazione sulla fraternità universale citata 8 volte e di cui, in certo modo, l’enciclica costituisce una glossa.
La seconda è che il papa ha spiegato il processo redazionale. Questa volta non ci sono ghostwriter, ma un redattore capo. Francesco ha infatti portato ad Assisi e ringraziato pubblicamente monsignor Paolo Braida, prete lodigiano, capo dell’ufficio della I sezione della Segreteria di Stato che cura i discorsi pontifici dal 2013 (del quale YouTube conserva una breve meditazione mariana del 2 maggio in pieno lockdown). E quel che l’ufficio di Braida ha fatto non è stato tanto quello di dare ordine agli autografi bergogliani e ai pareri ai quali ha dato credito, ma di ritagliare e ricucire una massa di citazioni che copre il 39,42 per cento del testo. Esse rivelano un ricorso martellante, per circa duecento volte, al “già detto” di papa Bergoglio e un ossequio formale al passato (una quarantina di citazioni di Montini, Wojtyla e Ratzinger; due citazioni di Pio XI e Pio XII e due del Concilio). Risaltano così le poche ma significative citazioni di altri: quelle più scontate di Francesco d’Assisi, di Ireneo e Crisostomo, di Agostino (per dargli torto), e dell’Aquinate (letto coi manuali degli anni Cinquanta del giovane Bergoglio).
E quelle a effetto come Paul Ricoeur, il maestro di Emmanuel Macron; il filosofo Georg Simmel (che per l’edizione italiana guadagna la prima menzione di Cacciari in una enciclica), del Talmud (citato con la frase di Hillel cara ad Amos Luzzato, presidente delle comunità ebraiche recentemente scomparso), Vinicius de Moraes (sì quello della samba), Karl Rahner (autore sempre indigesto a qualche asinus germanicus), e a Charles de Foucauld fondatore dei piccoli fratelli di Gesù da cui prende la chiave di lettura di una fraternità fatta di piccolezza e non di farlocche geometrie sul “Dio unico”.
La chiesa locale
La terza cosa è che ancora una volta l’enciclica ricorre e virgoletta il magistero delle conferenze episcopali come fonte dotata di autorità dottrinale, non per caso ma per una decina di volte (una misura quasi identica alle citazioni di Benedetto XVI). Delle congregazioni di curia invece, il papa, cita solo la correzione imposta alla dottrina della fede, che in età wojtyliana aveva pubblicato un catechismo che includeva la pena di morte e una fonte divulgativa il Compendio di dottrina sociale. La valorizzazione delle conferenze episcopali, ortogonale rispetto alla minimizzazione che ne faceva l’ecclesiologia ratzingeriana, è decisiva ed è il nucleo della riforma della chiesa bergogliana.
Mentre una schiera di adulatori e indotti disquisisce sul papa che cambia la “pastorale”, ma non cambia la “dottrina”, solo perché credono che la “dottrina” sia un prontuario di frasi fatte. Francesco mostra che il problema non è di formularità, o di arzigogoli pseudoteologici, ma topografico: bisogna sapere il luogo in cui la vita di fede produce letture del vangelo del tempo, chiavi del cammino della chiesa nella storia, esperienze di liberazione per capire che “non è il vangelo che cambia, ma che siamo noi a comprenderlo meglio”. E torna a dire che questo luogo è la chiesa locale e la communio ecclesiarum.
Soluzione alta, che libera la chiesa da costruzioni che fino a ieri erano dottrina (eccome!) – ad esempio l’esistenza della guerra giusta, la pena capitale, la subordinazione della donna, una concezione dolciastra del perdono. E apre un percorso che per la chiesa di oggi, scossa da prassi spicciative davanti a meschinità disarmanti, sembra più difficile ma che oggi è più urgente intraprendere.
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