A novembre ha sospeso le pubblicazioni la testata simbolo del sovranismo dell’ex ministro. Al suo posto un nuovo giornale durato appena cinque giorni. Storia segreta della “Bestia” ferita, tra milioni di euro sospetti e fallimenti
- C’era una volta “Il Populista”, l’organo di propaganda per eccellenza della Lega guidata da Matteo Salvini. «Audace, istintivo, fuori controllo...Libera la bestia che c’è in te», lo slogan di presentazione era il concentrato ideologico della svolta sovranista.
- Dall’11 novembre doveva essere sostituto da “Federal Post”, durato appena qualche giorno. Presentato in pompa magna, con l’ambizione di diventare «l’Huffington post di destra», così testuale senza ironia.
- Storia segreta della propaganda leghista guidata da Luca Morisi, tra milioni di euro spesi e progetti falliti.
C’era una volta “Il Populista”, l’organo di propaganda per eccellenza della Lega guidata da Matteo Salvini. «Audace, istintivo, fuori controllo...Libera la bestia che c’è in te», lo slogan di presentazione era il concentrato ideologico della svolta sovranista. C’era un volta, appunto, e ora non c’è più: ha sospeso le pubblicazioni. «Dall’11 novembre sarà online il “Federal Post”: Il Populista e Radio Padania si sono uniti per dare vita a una nuova avventura editoriale», è scritto nell’ultimo post visibile sulla pagina Facebook de Il Populista. Il sito del quotidiano “bestiale” è scomparso dal web. Le tracce di quell’esperienza sono ancora depositati nel cimitero dei siti offline.
L’ultima pubblicazione disponibile presenta un articolo di apertura sullo scontro governo-regioni sul Covid-19, più in basso la cronaca con protagonisti immigrati colpevoli di ogni atrocità, ultimi gemiti di un progetto nato per divulgare il verbo di una Lega che Salvini ha collocato all’estrema destra del panorama politico italiano. La fine del Populista letta alla luce della cronaca politica di queste settimane assomiglia a una premonizione di ciò che sarebbe accaduto due mesi più tardi: con la Lega pronta a votare il governo Draghi e Salvini riportato sulla via della moderazione dai consigli del mite numero due, Giancarlo Giorgetti, che spinge per un ritorno alle origini del parito, forza del territorio nordista senza ambizioni nazionaliste.
Tra propaganda e realtà
Chi si aspettava però una futuro roseo del Federal Post si è presto dovuto ricredere. Il giornale online è durato appena qualche giorno. Presentato in pompa magna, con l’ambizione di diventare «l’Huffington post di destra», così testuale senza ironia. Anche Federal Post così come il Populista è scomparso dal web. La grafica di federalpost.it ammicca al mondo conservatore americano, con «Federal» a richiamare la testata “The Federalist”, punto di riferimento dei repubblicani statunitensi più ortodossi. Nessun riferimento agli amici di un tempo a Mosca, l’asse spostato verso l’Atlantico. Tutto lascia pensare, insomma, a un riposizionamento, al lento abbandono del campo dell’internazionale sovranista devota alla Russia di Putin.
L’ultima edizione rintracciabile online di Federal Post si apre con l’intervista a un renziano di ferro, il deputato Luigi Marattin, sull’utilità del Mes: «Mes sanitario subito», titolo sorprendente da leggere su un organo di informazione della Lega, che da sempre demonizza il Meccanismo europeo di stabilità. Dopo il Mes il nulla. Difficile ricondurre la fine delle pubblicazioni a una sorta di effetto Marattin. Le cause del flop? Lo abbiamo chiesto al tesoriere della Lega, Giulio Centemero, che era amministratore fino a qualche tempo della società Mc Srl, editrice del Populista e azienda che ha registrato il sito Federal Post. Il tesoriere però non ha risposto.
Slogan e denaro
Mc Srl è controllata al 100 per cento da Pontida Fin, la cassaforte immobiliare di proprietà della Lega Nord per l’Indipendenza della Padania. La sigla ricorre spesso nel giro di denaro segnalato come sospetto dall’autorità antiriciclaggio di Banca d’Italia. Tra il 2018 e il 2019, per esempio, ha incassato da una società della Lega e dal partito stesso oltre 200mila euro. L’anomalia, sottolineano i detective antiriciclaggio, è che in alcuni casi parte delle somme ricevute sono state usate per pagare uno degli studi dei commercialisti del partito coinvolti nell’inchiesta della procura di Milano sui fondi pubblici distratti da regione Lombardia. I professionisti leghisti sono coinvolti in numerose transazioni tra fornitori e partito sul quale i magistrati indagano da tempo per capire se esiste un collegamento con i 49 milioni di euro della truffa sui rimborsi elettorali.
L’azienda editrice del Populista, poi di Federal Post, è beneficiaria di fondi dall’associazione Più Voci, fondata dal tesoriere e dai commercialisti arrestati, foraggiata dal costruttore romano Luca Parnasi e da Esselunga. Donazioni costate a Centemero un processo per finanziamento illecito a Milano, per lo stesso motivo rischia il giudizio a Roma.
A presidiare l’informazione di partito è rimasta Radio Padania. L’emittente sui cui conti si sono accessi diversi “alert” dell’antiriciclaggio. Tra il 2016 e il 2017 la cooperativa ha incassato 2,1 milioni di euro per la dismissione delle frequenze. Il tesoretto avrebbe risollevato i bilanci della radio, un tempo diretta da Matteo Salvini. Eppure oltre mezzo milione di euro ha seguito il solito giro: finito a società sempre riconducibili ai commercialisti finiti nei guai chiamati da Salvini a mettere in ordini i conti del partito.
La Bestia ricca ma ferita
È presto per dire se il sipario sul Populista e il fallimento di Federal Post coincida con la fine della propaganda sovranista spinta. L’armamentario lessicale non è stato messo in soffitta. La provocazione indirizzata alla pancia dei seguaci resta il tratto distintivo del proselitismo gestito da una squadra rampante, con Luca Morisi regista della caccia al consenso sui social realizzata sfruttando strumenti informatici in grado di percepire il sentimento degli utenti su fatti e avvenimenti del giorno: i crimini commessi da stranieri, l’élite europea, le banche. L’algoritmo ha trovato la sua sintesi in una parola: “La Bestia”, predatrice di like e cuoricini per Salvini, «Il nostro Capitano» definizione anche questa prodotta nella fabbrica Morisi & Co, costata parecchio al partito e alle casse pubbliche: dal 2017 al 2019, tra stipendi e versamenti vari, quasi un milione di euro. Senza contare lo staff, inclusi Morisi e Paganella, pagato con soldi del ministero dell’Interno, aziende del solito cerchio magico retribuite con denaro pubblico dei gruppi parlamentari e le sponsorizzazioni su Facebook: la pagina “Matteo Salvini” ha speso nell’ultimo anno 343mila euro. Primo tra i politici in cerca di fan. A fronte di tali cifre scricchiola la narrazione del partito al verde, messo in ginocchio dal debito con lo stato da 49 milioni.
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