Le donazioni e la vendita di beni di seconda mano non sono ovviamente calcolate nella categoria rifiuti, ed è qui che spesso si nasconde l'esportazione dei rifiuti tessili. Ecco come funziona il sistema e chi lo gestisce
L’esportazione di rifiuti tessili da parte dei Paesi Ue è aumentata costantemente negli ultimi 20 anni. Dalle poco più di 550.000 tonnellate uscite dai confini europei nel 2000, si è passati a quasi 1,7 milioni di tonnellate nel 2019. Il 75 per cento di questi rifiuti viene esportata fuori dal Continente da cinque Paesi: Belgio, Germania, Paesi Bassi, Polonia e Italia. Oltre il 90 per cento dell'export finisce in Asia e Africa. Questi sono i dati pubblicati sul tema nell'ultimo rapporto pubblicato dalla Agenzia europea dell'ambiente, l'organismo dell'Ue che monitora il settore, ma capire che fine fanno esattamente i rifiuti tessili italiani è quasi impossibile. I numeri ufficiali si scontrano con i sequestri effettuati dalle autorità giudiziarie di vari Paesi europei, le dichiarazioni delle autorità ambientali, i trucchi con cui vengono camuffati i carichi di rifiuti.
L'inchiesta condotta da Domani e dai suoi partner, De Fapt (Romania) e 24Chasa (Bulgaria), ha provato a scavare oltre le cifre ufficiali. Quelle su cui Agenzia europea dell'ambiente basa i suoi rapporti sono prese dal database del commercio internazionale Comtrade, dell'Onu, che prende in considerazione le esportazioni di rifiuti. Le donazioni e la vendita di beni di seconda mano non sono ovviamente calcolate nella categoria, ed è qui che spesso si nasconde l'esportazione dei rifiuti tessili. Abbigliamento, scarti di lavorazione industriale. Cose che vengono solitamente bruciate o abbandonate nel Paese d'arrivo. «Romania e Bulgaria restano le destinazioni preferite dei rifiuti di indumenti usati mascherati da beni di seconda mano. La fonte di questi rifiuti tessili sono ovviamente i paesi dell'Europa occidentale». Questo ci ha scritto la Guardia nazionale ambientale rumena, agenzia governativa del governo di Bucarest, rispondendo a una richiesta di Foia.
A Bucarest non esiste un dato ufficiale per quantificare il fenomeno: ne esistono due. Alle richieste inviate per questo articolo, l’Istituto Nazionale di Statistica ci ha detto che nel 2021 la Romania ha importato 1.788 tonnellate di rifiuti tessili, l’Autorità doganale ha risposto che le tonnellate importate sono state 192. Quasi dieci volte meno. Ogni tanto qualche carico viene fermato. Nel dicembre scorso la Polizia romena ha fatto sapere di aver sequestrato quasi 6mila tonnellate di rifiuti trasportati illegalmente, di cui il 20 per cento erano tessili. Secondo le risposte inviate dalla Guardia Nazionale dell'Ambiente, però, non bisogna cercare nella categoria rifiuti. «Il problema più grande continua ad essere quello degli indumenti usati e dei rifiuti tessili, delle calzature usate», ci ha scritto l'agenzia romena: «Mascherati come beni di seconda mano, riescono ad eludere i sistemi di monitoraggio delle operazioni di smaltimento dei rifiuti in un modo estremamente preoccupante».
Oltre ad un apparente commercio di abiti usati, i commercianti del settore utilizzano anche il metodo della donazione. Talvolta le destinazioni dei rifiuti tessili, come indicato nei documenti di trasporto, sono «organizzazioni no-profit legate alla Chiesa», ci ha scritto la Guardia nazionale dell'Ambiente. L'ex capo dell'agenzia governativa, Octavian Berceanu, contattato per questo articolo ha sottolineato sibillino il ruolo cruciale dei doganieri per spiegare questo fenomeno: «Il doganiere è il primo a entrare in contatto con la spedizione di rifiuti, a guardare i documenti. Il suo compito è allertare la Polizia di Frontiera se ha sospetti. Molto spesso però i doganieri non hanno sospetti».
Nessun reato
Anche il sistema giudiziario romeno non è riuscito a contrastare le frodi sui rifiuti tessili. Nel 2018 un’azienda italiana, la Delca Energy Srl, ha trasferito i rifiuti in Romania per bruciarli in un cementificio: li aveva dichiarati come plastica, invece gli ispettori della Guardia Nazionale hanno scoperto che all'interno del carico c'erano anche rifiuti tessili e domestici. Massimo Saporito, proprietario della Delca, è stato condannato dalle autorità giudiziarie romene per esportazione illegale di rifiuti a tre anni di carcere. Nel 2022, dopo aver impugnato la decisione, è stato assolto. I giudici rumeni hanno spiegato che Romania e Italia sono paesi dell'Ue, quindi non c'è un rapporto di import/export ma un «trasferimento intra-comunitario». Dunque, nessun reato: solo un'irregolarità amministrativa. In un caso simile i giudici rumeni hanno deciso allo stesso modo. Secondo il ragionamento, basato sul regolamento Ue 1.013/2006, devono essere perseguite solo le spedizioni di rifiuti pericolosi che non rispettano le disposizioni di legge. Ma i rifiuti tessili non sono pericolosi.
L’organizzazione
La magistratura romena ha dunque aggiustato il tiro. In un caso reso pubblico all’inizio di ottobre 2023, le accuse non riguardano più l’importazione illegale di rifiuti, ma il contrabbando di rifiuti da un altro Paese Ue: l'Italia. Le autorità romene non hanno rivelato i nomi dei soggetti indagati, ma hanno raccontato la dinamica scoperta. Secondo un comunicato diffuso dalla Direzione investigativa sulla criminalità organizzata e sul terrorismo, «dal 2021 nella parte occidentale del Paese (contee di Timis, Arad, Bihor e Hunedoara) e nel comune di Bucarest si è formato un gruppo criminale organizzato, specializzato nell'introduzione illegale nel Paese di rifiuti provenienti dal territorio intra-comunitario...Al primo livello del gruppo c'erano gli intermediari o intermediari di rifiuti...che si occupavano delle importazioni di rifiuti etichettati come rifiuti che potevano essere soggetti a riciclaggio/recupero...Il secondo livello del gruppo criminale era rappresentato dai trasportatori rumeni, che si recavano presso gli uffici o luoghi di lavoro di aziende comunitarie, solitamente in Italia». Secondo i magistrati, il gruppo avrebbe effettuato 57 spedizioni, per un totale di 1.500 tonnellate di rifiuti esportati illegalmente.
Inchiesta realizzata grazie al contributo di Journalismfund Europe
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