Se sei omosessuale sei «cattivo». Hai un comportamento «disordinato». Rosario Lo Negro aveva 13 anni quando ha letto queste parole nero su bianco. Una sentenza che da subito gli ha fatto pensare solo una cosa: «Sono sbagliato».

Era scritto (e continua ad esserlo) nella Cura pastorale delle persone omosessuali, firmata nel 1986, quando il papa era Giovanni Paolo II, dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, il cui referente era l’allora cardinale Joseph Ratzinger.

Rosario era un adolescente come tanti e stava cercando una risposta ai dubbi sulla sua possibile omosessualità. Voleva dare un nome a quello che sentiva e il riferimento principale della sua adolescenza era la parrocchia di Realmonte, poco più di quattromila abitanti, in provincia di Agrigento. Rosario era cresciuto lì, frequentando l’oratorio e studiando il catechismo. «Non sapevo dove collocarmi e leggere quelle parole mi fece male». Poco dopo, è entrato nel seminario di Agrigento con l’obiettivo di diventare sacerdote e ben presto si è trovato dentro un incubo chiamato «terapie riparative o di conversione». Aveva 20 anni, Rosario, nel 2017.

Solo un anno prima in Italia erano state approvate le unioni civili per le coppie omosessuali mentre oltre 30 anni prima, l’American Psychiatric Association e l’Organizzazione Mondiale della Sanità, avevano eliminato l’omosessualità dalla lista delle patologie. Essere omosessuali non è una malattia. Era questo il monito che arrivava soprattutto dagli Stati Uniti in risposta alle teorizzazioni di terapie per «convertire gli omosessuali».

La prima a parlare di «terapie riparative» fu la psicologa inglese Elizabeth Moberly negli anni Ottanta seguita dall’americano Charles Socarides e dallo psicologo cattolico conservatore Nicolosi, che insieme fondarono la National Association for Research & Therapy of Homosexuality.

Oggi si chiama Alleanza per la scelta terapeutica e l’integrità scientifica e di base offre seminari e conferenze a pagamento. Si propone di «guarire le ferite» che portano all’omosessualità. Non esiste nessuno studio scientifico che abbia mai dato spazio a possibili benefici tratti da queste terapie. Mentre sono ampiamente certificate le conseguenze psicologiche, anche a lungo termine, pagate dalle persone che sono state sottoposte ai «seminari di guarigione». Come Rosario.

«Quando sono entrato in seminario non avevo avuto esperienze sessuali. Fortunatamente c’era una psicologa con cui ho iniziato a parlare. È stata lei che per la prima volta mi ha aiutato a dire “sono omosessuale”. Mi consigliò di vivere almeno un anno fuori dal seminario o di parlarne con i superiori. Ed è quello che ho fatto». Lo Negro a giugno scorso era stato intervistato per la prima volta dalla Bbc. Nell’articolo della testata britannica non era specificato quale fosse il seminario.

Ora Domani è in grado però di ricostruire tutta la storia, scoprendo che il seminario di Rosario è quello di Agrigento e il rettore in quegli anni era monsignore Baldassarre Reina, nominato da papa Francesco vescovo ausiliare di Roma nel 2022 e successivamente nuovo vescovo responsabile del servizio diocesano per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili. «Mi dissero che si sarebbero presi del tempo per valutare il mio caso», continua Rosario. «Mi sono però innamorato di un ragazzo e ho avuto i primi rapporti sessuali che vivevo con un profondo senso di colpa. Ne parlai al mio padre spirituale e la frase che utilizzavo per non dire esplicitamente che ero andato a letto con un ragazzo era “sono caduto”. Lui rispose che era il diavolo che stava mettendo alla prova la mia vocazione».

«Chiuso in uno stanzino»

Qualche tempo dopo, Rosario ha incontrato in seminario il fondatore del gruppo Verdad y libertad, Miguel Ángel Sánchez Cordón, pediatra di Granada, amico della chiesa e del Vaticano, che si proponeva di «guarire» le persone omosessuali attraverso un percorso di spiritualità volto soprattutto a curare i traumi infantili. Lui stesso, legato in quegli anni al Movimento dei Focolari, si presentava come un ex omosessuale che aveva scoperto l’eterosessualità.

«Nel dialogo che ebbi con lui, mi chiese di parlare di me e di dirgli sessualmente cosa mi piaceva fare. Mi fece domande molto dirette e alla fine mi disse che avrebbe chiamato il rettore e gli avrei dovuto dire tutto di persona. Lo feci, con immenso imbarazzo, e la risposta fu che avrei iniziato il percorso di terapia». Per iniziare a parlare di ciò che ha subito in quel periodo, Rosario ha impiegato mesi fatti di frustrazione e senso di colpa. Per rimettersi in piedi ha iniziato un percorso (vero) di psicoterapia che ancora oggi continua e che lo sta aiutando nella gestione delle crisi di ansia e ira improvvisa che lo accompagnano da anni.

«Ho “chiuso la porta” il 9 settembre del 2017 a Palermo, in una parrocchia di Bagheria. Quello era il rito iniziale e consisteva nello stare chiuso in uno stanzino, con una lista scritta di cose che dovevo lasciare fuori dalla porta, come la pornografia e l’attrazione per lo stesso sesso. Qualcuno poi apriva la porta e ti diceva “vuoi venire alla luce”, rispondevi di sì, uscivi dalla porta e mettevi dei lucchetti simbolici: al sesso, alla masturbazione. Il rito si chiudeva con un abbraccio collettivo di tutti i presenti. C’erano persone che si collegavano anche online per seguire questi momenti comunitari, da diverse parti del mondo».

«Tutti nudi per guarire»

Il percorso durava un anno. «Era un impegno quotidiano perché si dovevano mandare dei messaggi nel gruppo Telegram con dei propositi, la sera si mandava il report e si doveva dire se si erano avute delle minime pulsioni o erezioni. Se accadeva dovevi scriverlo sul gruppo in diretta e tutti cominciavano a mandare messaggi di sostegno e preghiere collettive per “superare la tentazione”. Ti sentivi forte perché riuscivi a resistere e queste sono le cose che ti lasciano le ferite più profonde dopo. Il cervello fa determinate associazioni in automatico e vivere la sessualità diventa molto difficile».

C’erano alcune tappe obbligatorie e prevedevano un viaggio in Spagna dove si tenevano incontri a casa di Sánchez Cordón. «Le spese di viaggio le pagò il seminario». In Spagna gli incontri diventavano i rituali volti a desessualizzare il corpo maschile. «Dovevamo stare tutti nudi in piscina a guardarci, per educare il corpo a non eccitarsi. Poi a gruppi dovevamo metterci davanti allo specchio, che era nella camera da letto di Cordón. Quando l’ho fatto eravamo due preti e due seminaristi. Dovevi guardarti allo specchio e dire quello che ti piaceva di te, poi andava fatto ogni giorno a casa da soli».

Gli incontri erano seguiti non da professionisti ma dal fondatore insieme ad alcuni «fratelli maggiori», ovvero persone che avevano già seguito il percorso e avevano deciso di restare dentro al gruppo per aiutare altri ragazzi. «Erano quelli che stavano bene», sorride Rosario dall’altra parte del computer. È a casa sua a Milano, dove oggi convive con il suo compagno e studia filosofia. Quando parla, Rosario che oggi è un attivista del Progetto crsitiani Lgbt+, ride spesso, a tratti abbassa la voce e chiede se può essere esplicito, arrossisce in volto.

Poi c’è la rabbia, che tiene sotto controllo ma che non se n’è andata. Il percorso di Rosario è durato circa tre mesi. «Ho avuto una discussione e ho capito che in realtà lì dentro eravamo tutte cavie. Mi ripetevano che alla radice di tutto c’era la mia famiglia, i miei genitori che erano delusi da me. Decisi di andarmene».

Nel 2021 la congregazione vaticana per il Clero ha preso ufficialmente le distanze e condannato le terapie riparative portate avanti dal gruppo Verdad y libertad. Ne abbiamo parlato con monsignore Baldassarre Reina, rettore del seminario di Agrigento negli anni di Rosario. «L’obiettivo del percorso formativo è quello di una piena maturità umana, affettiva, spirituale e vocazionale e non ci sono terapie imposte», ha detto. «Con molti dei seminaristi che hanno liberamente scelto di fare quel percorso ho mantenuto ottimi rapporti. Alcuni di loro sono sacerdoti, altri sono sposati. Nessuno mi ha mai riferito personalmente di traumi subiti, altrimenti mi sarei messo in ascolto, avrei cercato di capire e se vi fossero state ragioni di sofferenza, legate al mio agire, non avrei avuto nessuna difficoltà a chiedere scusa».

In particolare, sul gruppo guidato da Cordon, Reina ha risposto: «Il Rettore di un seminario prima di affidare i propri seminaristi a un percorso di questo genere chiede ovviamente di poter partecipare a qualche incontro, per testarne la correttezza. Così negli incontri a Palermo l’Arcivescovo e anche io abbiamo voluto partecipare. Il percorso formativo di ogni seminarista è sempre valutato dall’équipe formativa, mai dal solo Rettore, e l’esito del discernimento viene poi sottoposto al Vescovo per una sua parola definitiva». Il gruppo di Verdad y libertad non è stato l’unico che in quegli anni si avvicinava ai seminari.

«Proposte come quella si rivolgono a tutta una comunità, per chi vuole avviare un percorso di rilettura della propria storia», continua l’alto prelato. «In tali contesti a volte emergevano ferite nella dimensione affettiva, legate alla famiglia di origine o ad alcuni drammi vissuti durante l’adolescenza. Alcuni seminaristi chiedono in prima persona di poter seguire percorsi di accompagnamento di questo tipo e quando lo hanno fatto non pochi hanno riferito di una complessiva soddisfazione del cammino realizzato».

In Italia, a differenza di quanto accade a Malta, Francia o in Germania, non esiste una legge ad hoc che bandisca queste terapie, nonostante siano vietate dal Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi e dalla Società italiana di psicologia. Ancora oggi, nel nostro paese, soprattutto negli ambienti ultra cattolici continuano ad esserci persone che le mettono in atto. E altre che ne diventano vittime.

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