Diritti sospesi, mancanza di operatori, documenti non redatti, e gravi rischi per la salute, come la mancanza di un’assistenza per i tossicodipendenti, la scarsa igiene dei bagni, la qualità dei pasti. È quanto emerge dal rapporto Delle pene senza delitti, una «istantanea» del Centro di permanenza per il rimpatrio di via Corelli a Milano. La struttura ha lo scopo di “trattenere” gli stranieri destinati all’espulsione in attesa dell’esecuzione di tale provvedimento.

Il rapporto nasce dalla visita del 5 e 6 giugno 2021 dei senatori Gregorio De Falco e Simona Nocerino, accompagnati dagli attivisti di Mai più lager-No ai Cpr. Non una visita a sorpresa, ma preannunciata con un giorno di anticipo. Nel Cpr milanese nei giorni dell’ispezione erano collocate 51 persone, alcune anche da sei mesi.

Il documento fotografa una situazione impietosa: si parla di «inadempienze e superficialità del gestore» che si riverberano sui diritti dei trattenuti. Diritti «violati» su cui il controllo della prefettura è scarso se non nullo. Il centro nel rapporto viene descritto come «una struttura carceraria per persone innocenti, ma con ancora meno diritti e meno regole che in carcere». Una struttura «dove si capita senza che venga celebrato alcun processo».

La «smazzoliata»

La visita dei due senatori scaturisce dai «fatti del 25 maggio». Il giorno prima, al Cpr di Torino, si era tolto la vita Moussa Balde, 23enne originario della Guinea, dove era stato trasferito e messo in isolamento dopo aver subito un pestaggio a sangue da parte di tre italiani a Genova.

Il 25 maggio, nella struttura milanese, ha avuto luogo una «smazzoliata». I «trattenuti» hanno protestato per la mancanza di biscotti a colazione. Poi la situazione è degenerata e sono intervenuti una ventina di agenti in tenuta antisommossa che avrebbero picchiato i protestanti in una zona del centro in cui mancavano le telecamere. Otto «trattenuti» avrebbero riportati ferite. La sera sarebbe stato appiccato anche un incendio, e nei giorni successivi molti «ospiti» hanno iniziato uno sciopero della fame.

Alcuni detenuti sono stati denunciati, ma il tribunale di Milano ha respinto la richiesta di custodia cautelare. Il giudice scrive che le condizioni in cui vivono nel Cpr «meriterebbero un approfondimento» e che «se le denunce rispondessero al vero, sarebbero ben oltre il limite della legalità». I «trattenuti» infatti parlano di cibo scaduto, mancanza di acqua calda, impossibilità di contattare i parenti, pestaggi delle forze dell’ordine. Situazioni che, come scrive lo stesso gestore del centro al prefetto il 26 maggio, «oltre ad aumentare inevitabilmente il tasso di agitazione e nervoso» incidono sulla «salute psicologico-psichiatrica» dei migranti: «Un luogo che avrebbe come scopo unico il rimpatrio a oggi non rimpatria e provoca esplicitamente danno alla salute dei trattenuti».

La storia di L.A.

I turbamenti provocati dalla detenzione sono evidenti nella storia di L.A.. Ingestione di lamette, di stoffa, di pezzi di ferro, la cucitura delle labbra con un filo di metallo, tagli e fratture: il migrante si è inflitto tutto questo da solo, subito dopo il suo «collocamento» nel Cpr milanese. Atteggiamenti dovuti a un forte disagio psicologico che avrebbero potuto provocare danno anche agli altri «ospiti». Per questo dal 10 marzo al 2 giugno è stato sottoposto a un Tso. Subito dopo, L.A. è stato dimesso dal Cpr per la «non compatibilità della sua situazione con la condizione del trattamento». Da allora di lui si sono completamente perse le tracce: non aveva un cellulare, e anche il suo avvocato non ha avuto più notizie.

Quello di L.A. non è un caso isolato: «In questa terra di mezzo del diritto alla salute e alla difesa in condizioni di privazione della libertà individuale, come visto, gli atti di autolesionismo sono numerosissimi ogni singolo giorno, e non è raro assistere a macabre scene di pavimenti insanguinati per metri», è scritto nel rapporto. «È stato sufficiente entrare a colloquio nei settori abitativi dove sono reclusi i trattenuti per rendersi conto, a colpo d’occhio, che almeno la metà di questi ultimi riportava sulle braccia, sul volto, sul collo, segni di tagli autoinfertisi, arti fasciati o tentativi di impiccagione».

Le lacune nei protocolli

Nel Cpr di Milano sono tante le lacune gestionali che si tramutano in libertà negate e in condizioni di vita pessime per i detenuti.

La «lacuna più grave» è la mancanza di un protocollo di intesa tra prefettura e la Asl, che permetta di valutare in maniera imparziale le condizioni di vita dei «trattenuti», di vigilare sulle attività sanitarie e sullo stato di conservazione e di somministrazione dei pasti, di erogare visite specialistiche in caso di bisogno. Il 24 giugno, su richiesta del senatore De Falco, la prefettura ha risposto che «il citato protocollo con strutture sanitarie di cui all’art. 3 del Regolamento Cie 2014 non è stato sottoscritto poiché la direzione generale Welfare di regione Lombardia non ha ritenuto di dover sottoscrivere», aggiungendo però che «stata comunque assicurata da Ats Milano e dalle strutture sanitarie territoriali, la necessaria assistenza sanitaria ai trattenuti».

Non c’è nemmeno un supporto per le persone tossicodipendenti: manca infatti un protocollo con le strutture pubbliche. Gli effetti sono terribili per la salute dei «trattenuti»: chi entra, nonostante dichiari la sua dipendenza, non viene aiutato con una terapia con il metadone. Il risultato: «Plurime situazioni di stress, crisi di astinenza, autolesionismo» che «vengono malamente gestite attraverso la somministrazione di farmaci tranquillanti in dosi massicce», senza il supporto di specialisti.

Nel report viene evidenziata anche la presenza di uno spaccio «con prezzi per nulla accessibili e superiori rispetto a quelli di un supermarket» che lascia immaginare che «vi sia un ricarico sulla merce venduta, a vantaggio del gestore» e che «non è risultato per nulla chiaro se e in che misura tali vendite di prodotti siano regolarmente assoggettate agli oneri fiscali di legge». I «trattenuti» sono quasi costretti a ricorrere allo spaccio: lamentano che il cibo della mensa è scarso e, quando non scaduto, avariato. Quello che i «trattenuti» acquistano è con il loro “pocket money” giornaliero di 2,50 euro: allo spaccio possono comprare solo una bottiglia di Coca Cola o mezza tavoletta di cioccolato.

 

© Riproduzione riservata