Un reality di cucina sudcoreano è stato per più di un mese uno dei contenuti più visti di Netflix in tutto il mondo, un fenomeno eccezionale in patria e clamoroso anche fuori che dice tantissimo sulla sua società e fa riflettere sulle differenze con l’Italia
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Culinary Class Wars è un grandissimo successo di Netflix. Appena uscito, è andato in testa alla classifica dei più visti nel suo paese, la Corea del Sud, e poi in quella dei più visti al mondo. Dopo più di un mese è ancora nella top 10 dei più visti a livello globale. Non è una serie di finzione, ma un reality show di cucina, un talent (di quelli in cui le persone dimostrano le loro abilità) che incrocia il sottogenere celebrity (in cui partecipano persone note). È un po' MasterChef, ma soprattutto è Squid Game, la grande serie TV coreana, la più vista di sempre in tutto il mondo.
Il format prevede che partecipino 100 cuochi professionisti (cioè persone che hanno o lavorano in un ristorante). Venti di questi sono chef di alto livello e entrano in gioco solo dal secondo round; i restanti 80 sono professionisti che nel primo round devono preparare un piatto per dimostrare di essere all'altezza di entrare nel gioco. Ahn Sung-jae, l'unico chef tristellato della Corea (il suo ristorante si chiama Mosu), e Baek Jong-won (magnate del business della ristorazione) li giudicano. Per tutti, anche per gli chef, sono delle star da venerare. Dopo tre puntate, la selezione riduce quegli 80 a 20. Da lì in poi, i 20 chef stellati (squadra bianca) si scontrano contro i 20 cuochi professionisti (squadra nera), in una sfida a eliminazione fino a che non ci sarà un solo vincitore.
L'incredibile successo di questo programma è tutto in questa evidente somiglianza con Squid Game: sia nella scenografia (l'arena in cui si trovano, il grande videowall su cui viene conteggiato il numero di cuochi selezionati in ogni momento, anche gli effetti sonori!), sia nella struttura del programma (molto è narrato da una voce amplificata nella stanza, di cui non vediamo il volto) che persino nelle prove e nel grande premio in denaro (l’equivalente di circa 200.000€). Tanto che anche uno dei concorrenti, a un certo punto, dice: "Sembra Squid Game". I giudici, quando comunicano a un cuoco che non viene eliminato ma passa alla prova successiva, gli dicono: "Sei sopravvissuto".
Culinary Class Wars ci mostra un altro modo di intendere la cucina: molto più come una professione che come una questione di affetti, ricordi o una forma d'arte. Dal nostro punto di vista, quello italiano, questo reality è una finestra su un mondo completamente diverso. Non c'è la nostra idea di cosa sia la cucina, né di come raccontarla in televisione. In Culinary Class Wars la cucina è secondaria. Qualunque programma italiano sul cibo, dai tradizionali della Rai a MasterChef fino a Dinner Club, è centrato sui piatti, sulle preparazioni o al massimo sulle materie prime. In Culinary Class Wars invece spesso i piatti non ci vengono nemmeno spiegati: non sappiamo quali siano gli ingredienti o che sapore abbiano. A contare più di tutto è un'altra cosa: il successo.
La cucina è raccontata come una lotta per la supremazia (da cui la metafora di Squid Game), un mercato competitivo in cui è necessario avere un'identità e distinguersi dagli altri (un dettaglio davvero asiatico è che gli 80 cuochi non famosi vengono identificati con un epiteto, il diritto a essere chiamati con il proprio nome devono guadagnarselo vincendo). Conta molto il successo dei ristoranti, conta la sete di arrivare e conta l'ambizione. Mentre nei nostri programmi i sentimenti sono tutto, e gli chef che giudicano sono figure genitoriali, benevoli o duri ma sempre con affetto, in Culinary Class Wars i due giudici a volte lasciano il giudizio all'altro per evitare di farsi influenzare dal sentimentalismo. Ed è esattamente l’approccio che più attira.
In patria Culinary Class Wars ha creato un grandissimo culto degli chef e ha rianimato il business della cucina coreana dopo le difficoltà della pandemia (anche se molti dei cuochi concorrenti sono specializzati in cucina giapponese o cinese). I piatti cucinati nella trasmissione sono entrati in molti menù e vengono venduti già pronti nei supermercati. Di nuovo, l'esatto contrario della cultura italiana, che celebra, rilancia e rinforza i piatti della tradizione (magari modificati, ma sempre noti), anziché creare nuovi successi culinari e fondare nuove abitudini a partire dalla televisione.
Si può sorridere vedendo Culinary Class Wars, specie quando è menzionata la cucina italiana. Un cuoco prepara un aglio e olio che sembra sconvolgere tutti, un altro, il cui epiteto è "Napoli Mafia", prepara un piatto sofisticato che racconta le contraddizioni di Napoli, in cui tra i vari elementi ci sono degli involtini neri a sacchetto che, spiega lui, sono un riferimento ai problemi con la spazzatura. Il cuoco in questione è coreano, ovviamente.
È facile quindi guardare Culinary Class Wars (che rimane un programma perfetto, di eccezionale presa), ma in realtà è un modo di raccontare, proprio attraverso la cucina e le dinamiche della ristorazione, la concezione del cibo e di tutto ciò che vi ruota attorno in quella cultura. È chiaro che per la Corea del Sud è più un business che altro, e per aumentare il proprio volume d'affari si può fare di tutto (già solo il fatto che chef affermati accettino di farsi giudicare da altri chef e mettersi in competizione con cuochi ordinari, rischiando anche di perdere, è impensabile per noi).
Soprattutto osservando le poche ricette tradizionali, lo stupore per certi sapori e le motivazioni per cui i cuochi vengono eliminati, emerge il potente contrasto tra il legame con una tradizione non certo recente e la spinta, potentissima, verso la novità, il cambiamento e il progresso. Una dinamica per noi completamente inedita.
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