Diversi fatti di cronaca avvenuti negli ultimi mesi mostrano quale siano le convinzioni diffuse in Italia in tema di stupro. Per combattere e smontare questa cultura, basata su false credenze e pregiudizi, basterebbe documentarsi e riferire quel che ci dicono le statistiche e le montagne di ricerche nel campo della psicologia, delle neuroscienze e delle scienze sociali
Diversi fatti di cronaca avvenuti negli ultimi mesi mostrano quale sia la cultura che ancora oggi in Italia prevale in tema di stupro. Il 28 marzo 2023, il Tribunale di Firenze ha assolto due giovani imputati dall’accusa di stupro su una giovane loro amica.
I due giovani avevano incontrato la ragazza ad una festa, lei aveva bevuto ed era ubriaca, in passato aveva avuto un rapporto sessuale «occasionale» con uno di loro, e questo ha creato – dice la sentenza – un «fraintendimento» che ha portato i due giovani ad «un errore di percezione del consenso». Eppure, la ragazza ha raccontato: «Gli dicevo: no, smettetela, l’ho ripetuto più volte, sin da subito, e gli levavo le mani dal mio corpo».
L’8 luglio, il Tribunale di Roma ha assolto un bidello accusato di aver commesso una violenza sessuale contro una studentessa minorenne della sua scuola perché le aveva palpeggiato i glutei solo per dieci secondi, un tempo troppo breve per «configurare l’intento libidinoso di concupiscenza generalmente richiesto dalla norma penale».
Durante il processo per violenza sessuale contro Ciro Grillo, figlio di Beppe, e tre suoi amici – Vittorio Lauria, Edoardo Capitta e Francesco Corsiglia – ora in corso presso il Tribunale di Tempio Pausania, gli avvocati che difendono i quattro giovani hanno posto a Silvia (nome di fantasia), la giovane donna che dice di averla subita, 1400 domande come queste: «Perché non ha reagito? Perché non ha urlato? Era lubrificata? Perché non ha usato i denti durante il rapporto orale?».
Silvia molte volte ha mormorato: «Non ricordo». L’avvocato Dario Romano, che insieme a Giulia Bongiorno la assiste, l’ha definito «un interrogatorio da Medioevo»; invece, il giudice Marco Contu e Antonella Cuccureddu, l’avvocata che difende uno degli imputati e che quelle domande le ha poste, hanno ribadito che quelle domande sono legittime, e servono per accertare i fatti.
Cosa dicono le statistiche
Questi sono tutti perfetti esempi di cultura dello stupro, ovvero di quell’insieme di valori e credenze che contribuiscono a costruire un ambiente favorevole allo stupro. Per combattere e smontare questa cultura, basata su false credenze e pregiudizi, basterebbe documentarsi e riferire quel che ci dicono le statistiche e le montagne di ricerche fatte nel campo della psicologia, delle neuroscienze e delle scienze sociali.
Per esempio, negli Usa e in molti paesi europei una donna ogni 6 è vittima di uno stupro o di un tentativo di stupro nel corso della sua vita. Invece lo subisce solo circa un maschio su 75. Contrariamente a quel che si crede, quasi sempre a commettere una violenza sessuale non sono sconosciuti ma persone note alla vittima. Nell’80 per cento dei casi una donna viene violentata dal marito o ex marito, da un partner intimo, da un amico o un conoscente.
Lo stupro non è un atto frutto di un impulso improvviso. Lo stupro e la violenza sessuale sono crimini violenti che originano dalla determinazione di un individuo di esercitare il potere o umiliare un altro individuo, quasi sempre una donna. Contrariamente a quel che si crede, la maggior parte delle accuse di stupro non sono inventate da una donna che si è pentita e ha cambiato idea, dopo un rapporto sessuale: solo il 2 per cento delle accuse si rivelano false o infondate.
Le vittime di violenza sessuale sono molto riluttanti a denunciare gli abusi subiti perché temono di non essere credute o perché provano vergogna. Lo stupro e la violenza sessuale sono i crimini violenti più raramente denunciati alla magistratura e alle forze dell’ordine. Le statistiche variano a seconda dei paesi, ma si stima che tra il 65 e il 96 per cento di tutte le violenze sessuali non vengano mai denunciate alle autorità. La quasi totalità degli stupri che avvengono entro le mura domestiche non vengono mai denunciati.
Molti pensano che una donna, se sta attenta, può evitare di essere stuprata. Molti – forze dell’ordine, magistrati, giornalisti, e opinione pubblica – si focalizzano sull’aspetto o la personalità della vittima, nella convinzione che se una donna è carina, ha avuto molti partner, se è vestita in modo appariscente, se a una festa flirta con qualcuno e peggio ancora beve alcol fino ad ubriacarsi, allora è una che ci sta e se viene violentata “se l’è cercata”. Niente di più falso.
Sono vittime di violenza donne giovani o anziane, belle e brutte, con molti partner e pochi, provocanti e non. Per fare cadere questa falsa credenza, basta ricordare che la maggior parte degli stupri sono commessi dai mariti o dal partner intimo: cosa fanno queste donne per meritarselo, si vestono provocanti in casa?
I tratti del violentatore
Invece, dovremmo spendere molto più tempo e parole per analizzare le caratteristiche di coloro che commettono gli stupri, quasi sempre maschi. I violentatori sono tra di noi e, contrariamente a quel che molti pensano, non sono malati di mente, di classi sociali più povere o immigrati. I violentatori hanno un’età media di 30 anni, e appartengono a tutti le classi sociali, sono ricchi o poveri, italiani o stranieri. Ma quasi tutti hanno qualcosa in comune: nella maggior parte dei casi il violentatore conosce la sua vittima, mostra una rabbia estrema contro le donne e le considera oggetti da conquistare, prova il desiderio di dominare la donna e considera normale la violenza in una relazione, ha atteggiamenti iper-mascolini, segue rigidi stereotipi di genere e crede in miti da cultura dello stupro, come: «Se ti dice no, vuole dire sì».
Anche i giornalisti dovrebbero farsi un esame di coscienza. Un giornalista si chiede perché una violenza sessuale avviene per informare l’opinione pubblica. Ma spesso finisce per passare sotto scrutinio la personalità della vittima, come se avesse lei la colpa – cosa non vera e che non accade per gli altri tipi di crimine violento. Un giornalista dovrebbe bilanciare il diritto alla privacy della vittima con il diritto del pubblico di sapere. Un buon giornalista dovrebbe capire quali dettagli servono per informare l’opinione pubblica e quali servono solo a traumatizzare nuovamente la vittima o a rinforzare le false credenze che circondano lo stupro.
I dettagli che riguardano l’assalitore sono rilevanti: la sua descrizione fisica, come ha agito, se ha adoperato un’arma, se ha usato la violenza fisica e se si è approfittato di una vittima incosciente o ubriaca. I dettagli sulla vita privata della vittima, le sue abitudini, la sua storia sessuale e il suo aspetto fisico non contribuiscono a informare l’opinione pubblica per migliorare la sicurezza, ma portano solo alla sua colpevolizzazione. Un buon giornalista dovrebbe scegliere con cautela le parole e le frasi per evitare che la vittima venga considerata in tutto o in parte colpevole del crimine.
Dire che la vittima di uno stupro è una vittima innocente è pleonastico perché una vittima è sempre innocente. Parlare di uno stupro “presunto” o di una “presunta” vittima di uno stupro non è corretto perché la parola “presunto” non è un termine neutrale ma implica un forte dubbio e un giudizio morale.
Certo, usarlo garantisce la presunzione di innocenza degli accusati, ma sarebbe meglio rendere più esplicite le frasi spiegando chi accusa chi e di cosa, ad esempio: “La donna che afferma di avere subito violenza da parte di x”, “gli imputati accusati di stupro dalla donna y”, “la polizia che indaga z per violenza sessuale”.
Se siamo garantisti, non dovrebbe essere permesso a un avvocato o a un pm di chiedere alla vittima: «Lei durante il rapporto sessuale era lubrificata?». Oppure: «Lei durante il rapporto orale ha usato i denti?», perché se si sia trattato di rapporto sessuale oppure di violenza è esattamente quel che deve stabilire il processo. Se si dà per scontato che è stato un rapporto sessuale, allora si dà per scontato che la donna era consenziente.
Sarebbe più giusto chiederle: «Quando le hanno infilato il pene in bocca, che lei ha descritto come una violenza, perché non ha usato i denti?». E la vittima potrebbe rispondere: «Proprio perché era una violenza, avevo paura».
© Riproduzione riservata