I “diamanti sono per sempre”, diceva una vecchia pubblicità e non a torto. Sono inattaccabili, duri, rari e realmente “eterni” in rapporto alla vita umana. Per la ricerca geologica poi, hanno un ruolo quasi unico dal punto di vista scientifico. Sono come libri di un tempo che fu.

I diamanti sono arrivati sulla superficie cavalcando “getti supersonici” di magma provenienti da particolari vulcani chiamati “kimberliti”, che oggi sono tutti spenti (ma forse no, come vedremo più avanti) e ciò rende i diamanti ancor più preziosi.

C’è ancora molto da scoprire circa la formazione di questi minerali, ma ai geologi è noto che sono come capsule del tempo. Anche se la domanda che assilla i geologi più di altre è: perché i vulcani kimberlitici che li hanno spinti in superficie sembrano essersi estinti milioni di anni fa? 

Alcune recenti ricerche potrebbero aver dato vita ad un modello onnicomprensivo che spiega come funzionano i vulcani di quel tipo e con esso una migliore comprensione dei loro tesori. Inoltre, si sarebbe capito che i vulcani kimberlitici potrebbero non essere estinti del tutto.

La nascita di un diamante

Come si formano esattamente i diamanti è ancora in parte da capire, proprio perché “nascono” in condizioni difficilissime da riprodurre in un laboratorio. La stragrande maggioranza dei diamanti ha più di un miliardo di anni. «I più antichi che abbiamo analizzato risalgono a circa 3,5 miliardi di anni fa», afferma Steve Shirey, geochimico presso la Carnegie Institution for Science di Washington DC ed esperto mineralogista.

Quando si formarono, granelli di minerali e fluidi – noti come inclusioni – risalenti allo stesso periodo furono imprigionati al loro interno, preservando le registrazioni chimiche e altre caratteristiche di come era la Terra in quel tempo così lontano.

L'unica strada che permette ai diamanti di vedere la luce del giorno è quella di cavalcare la strana specie di eruzione vulcanica kimberlitica. Fino al 1869 le gemme venivano recuperate solo dai sedimenti lasciati dai fiumi. Ma quell’anno furono trovati all’interno di rocce magmatiche in varie fattorie sudafricane, tra cui alcune a Kimberley. Queste rocce furono chiamate kimberliti e sono il prodotto di eventi vulcanici estremamente esplosivi. A oggi sono state scoperte circa 6.000 formazioni kimberlitiche.

Vulcani kimberlitici

La maggior parte si trova nell’Africa meridionale, ma sono stati trovati in tutti i continenti, compresa l’Antartide. Circa il 3 per cento di questi vulcani contiene diamanti di considerevoli dimensioni.

Le ricerche hanno poi permesso di capire che i vulcani kimberlitici sono estremamente strani. La prima caratteristica che li contraddistingue è il loro magma. «Le kimberliti eruttano materiale del mantello terrestre profondo. Lì dove si forma erutta “immediatamente"», afferma Graham Pearson, geochimico dell'Università di Alberta in Canada.

Ciò significa che le eruzioni kimberlitiche avvengono rapidamente. Mentre risale dal mantello nella crosta, il carbonio nel materiale in eruzione si trasforma in anidride carbonica, trasformando i magmi in una specie di razzo schiumoso. È come «un razzo che esplode», afferma Janine Kavanagh, vulcanologa dell’Università di Liverpool, nel Regno Unito.

Mentre il magma accelera durante la risalita, trasporta diamanti e interi pezzi di roccia del mantello. Nessuno ha mai assistito a un'eruzione della kimberlite, quindi per ricostruire come avvennero, i geologi mettono insieme i dettagli che si scoprono via via nel tempo e in luoghi diversi, per elaborare potenziali scenari. Forse il magma rovente incontra dell’acqua fresca, innescando violente esplosioni di vapore. Forse il gas intrappolato nella sua materia fusa ribolle rabbiosamente finché non esplode. In ogni caso, un'esplosione porta a un’altra, poi a un’altra, poi a un’altra ancora.

Le esplosioni, protratte per molte ore, aprono una ferita che scava sempre più in profondità nella crosta terrestre. Quando tutto è finito, rimane un cratere spalancato, schegge di magma solidificato qua e là e un tubo che si estende nella crosta terrestre intasato da roccia vulcanica frantumata e da altri detriti.

Milioni di anni dopo le loro eruzioni, ciò che rimane dei vulcani kimberlitici non sono montagne. Le loro caratteristiche più importanti sono i tubi di roccia verticali sepolti, a volte lunghi diversi chilometri. Sono i condotti che un tempo incanalavano furiosamente il magma verso la superficie. Per i geologi è sconcertante il fatto che il vulcanismo delle kimberliti sembra essersi completamente spento. Per molto tempo, la kimberlite più giovane conosciuta aveva dai 30 ai 40 milioni di anni. 

Studiare le kimberliti dunque, era ed è, quasi come fare archeologia geologica. E non aiuta il fatto che i tubi che costruirono siano pieni di un caotico miscuglio di prove frantumate. Nel tentativo di risolvere questi enigmi, geologi come Thomas Gernon, dell’Università di Southampton hanno trascorso molto tempo nelle miniere di diamanti. Le kimberliti vengono spesso fatte saltare in aria dai cercatori di diamanti. E dunque, molto materiale che potrebbe essere d’aiuto nelle ricerche scompare in poco tempo.

Pulsare nel tempo

Gli studi tuttavia, hanno portato a farci capire che le eruzioni kimberlitiche non sono avvenute omogeneamente in tutto il mondo. «Le kimberliti pulsano nel tempo», afferma Pearson. Si è verificato un picco di tali eruzioni circa 500 milioni di anni fa. Poi un altro picco 370 milioni di anni fa. Poi un altro quando i dinosauri regnavano sovrani. 

I fuochi d’artificio kimberlitici coincidono con la disgregazione dei continenti, compresi i supercontinenti, come la Pangea. Forse, alcuni pensavano, le ferite che si aprono quando i continenti si frammentano hanno creato percorsi attraverso le viscere della Terra che le kimberliti hanno sfruttato. Ma quasi tutte le kimberliti si trovano all’interno dei “cratoni”, i colossali nuclei o cuori dei continenti dove la litosfera (la crosta più il sottostante mantello rigido) è spessa anche 200 chilometri, che non presentano tali fratture. 

Ciò significava che i magmi kimberlitici sceglievano le parti più spesse e resistenti dei continenti per perforarli – il percorso di maggior resistenza – qualcosa che la maggior parte delle attività eruttive tende a evitare. Sembrava impossibile da spiegare.

Questo fino all’anno scorso, quando Gernon e i suoi colleghi hanno avuto un filo conduttore che mette tutto insieme. Confrontando l'emergere delle kimberliti con i tempi delle varie frammentazioni continentali, Gernon si è reso conto che le eruzioni non avvenivano immediatamente ma circa 26 milioni di anni dopo la prima comparsa delle fratture continentali.

Gernon e il suo team hanno inserito queste idee in una simulazione al computer delle placche tettoniche della Terra, abbastanza avanzata da ricreare in modo autentico il modo in cui le placche mobili agitano il materiale nel mantello sottostante. Ed ecco verificarsi una “cascata” di eventi che hanno permesso di spiegare come le kimberliti si arricchiscono in carbonio che consente loro di eruttare così furiosamente e, soprattutto, come e perché riescono a sfondare i cratoni.

«Quando una placca si spezza, si crea uno spazio dove la materia calda sottostante fuoriesce per riempirlo», afferma Gernon. Questa risalita provoca tempeste vorticose di fluidi nella parte inferiore e più malleabile del mantello. Quella prima tempesta, sotto il sito della spaccatura, crea un’altra instabilità accanto a essa, poi un’altra e un’altra ancora, un fenomeno che va ad indebolire il duro cratone.

«È come una reazione a catena», afferma Gernon. Questi vortici erodono il ventre roccioso del continente, portando via alcune delle sue rocce ricche d'acqua. È allora che le rocce alla base della crosta dei continenti si arricchiscono in carbonio, l’ambiente ad altissima pressione e temperatura li cuoce nel modo giusto per produrre il primo lotto di magmi kimberlitici ricchi di carbonio.

Quando vengono prodotte quantità sufficienti di questo materiale, riescono a farsi strada nella crosta continentale, che è meno rigida del solito, fino a dare vita a una serie di eruzioni di kimberlite proprio circa 26 milioni di anni dopo che una placca continentale inizia ad essere distrutta. Ma la storia non finisce qui. 

I più giovani

Nel 2012 gli scienziati stavano frugando in una serie di rocce frantumate e piccoli coni vulcanici in Tanzania, che comprendevano tre siti eruttivi conosciuti come i vulcani delle colline Igwisi. Quando riuscirono a campionare quelle rocce scoprirono che la chimica delle lave era inconfondibilmente kimberlitica. E alcune delle rocce vulcaniche risalivano a soli 10.000 anni fa o giù di lì.

All’improvviso, le colline Igwisi sono diventate i vulcani kimberlitici più giovani sulla Terra. Ciò ha sconcertato i ricercatori, dal momento che il pianeta, in questo momento, è tettonicamente calmo. Non siamo in un periodo di annientamento supercontinentale.

Ma questa rivelazione si sposa con la storia delle origini delle kimberliti raccontata dal team di Gernon. La Tanzania si trova su un cratone, ma è anche influenzata dal Rift dell'Africa orientale, una massiccia rottura tra due placche tettoniche che hanno iniziato a separarsi 25 milioni di anni fa dando vita al Mar Rosso.

Ciò significa che i vulcani delle colline Igwisi potrebbero rappresentare il preludio a una nuova era di vulcanismo kimberlitico in questa regione. «Sembra un buon test del modello», dice Gernon. Forse, un giorno, tra qualche decina o centinaia di migliaia di anni se non milioni di anni, qualcuno che camminerà lungo le coste dell’Africa orientale vedrà una fontana di fuoco eruttare nell’entroterra, illuminando il cielo notturno. I diamanti, intrappolati per miliardi di anni nelle profondità del pianeta, si disperderanno nel paesaggio. E gli scienziati guarderanno con stupore, chiedendosi quali nuovi segreti il ​​pianeta abbia deciso di portare alla luce.

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