Che cosa c’entra l’autonomia differenziata con la nostra spedizione olimpica che fra qualche giorno comincerà la sua caccia al tesoro a Parigi? Forse la prima risposta alla domanda bisogna cercarla nelle carte di identità, alla voce che dice “luogo di nascita”, dei 403 azzurri che hanno conquistato l’agognata qualificazione ai Giochi pronti a partire con una suggestiva e inedita sfilata sulla Senna. Fra questi, ce ne sono 66 nati nel meridione e nelle isole. Dunque, il 16,37 della comitiva. Mentre queste stesse regioni – Campania, Molise, Calabria, Puglia, Basilicata, Sicilia e Sardegna - rappresentano più del 31 per cento della popolazione italiana.

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Chi sono

Di questi 66, poi, almeno la metà vive e si allena in altre Italie. Tutti i pallavolisti, per dirne una. Diversi nuotatori, in primis l’attesissima Benedetta Pilato che ha lasciato Taranto per studiare biologia e allenarsi a Torino. Qualche schermidore, i già medagliati olimpici Rossella Fiamingo e Luigi Samele, di stanza a Roma e a Bologna. E alcuni rappresentanti di quegli sport che hanno proprio nella capitale il loro centro federale. A rimanere, tanto per citare alcuni esempi, un discreto gruppo di canottieri, le nostre boxeur (ma non Irma Testa, che vive a Perugia e si allena al centro federale di Assisi), l’ostacolista Alessandro Sibilio, che si allena proprio nello stadio Maradona convivendo con il suo Napoli di cui è tifosissimo, il velocista Matteo Melluzzo in Sicilia, senza dimenticare le ragazze campionesse d’Italia della pallanuoto dell’Ekipe Orizzonte Catania. Grazie al quale ci sono anche le uniche azzurre, diciamo così, in controtendenza, quelle che giocano nell’isola pur non essendoci nate.

Proviamo a tradurre: il sud rappresenta poco meno di un terzo della popolazione pur ospitando solo un decimo degli azzurri. C’è un’evidente dinamica migratoria interna anche nello sport. Paradossalmente, peraltro, questi rapporti di forza si riequilibrano se si prende in considerazione l’ultimo medagliere dei Giochi estivi, in cui meridione e isole hanno espresso 17 podi, un quarto del bottino complessivo di 69. Dunque, il sud, pur costretto a cambiare casa, in proporzione vince pure di più. E vince di più anche in relazione a un altro fatto: gli italiani del meridione e delle isole hanno meno impianti a disposizione e una base di reclutamento decisamente inferiore.

I numeri dello squilibrio

I dati Istat sulla pratica sportiva, per ora siamo al 2022, ce lo dicono, più che altro lo strillano: dai tre anni di età in su meno di venti calabresi su cento fanno sport in modo saltuario e continuativo a fronte dei 60 altoatesini, dei 50 trentini, dei 42 veneti, dei 40 lombardi, dei 39 emiliano-romagnoli. Dal 2005 al 2022, tanto per aggiungere un altro dato, la pratica sportiva al meridione è cresciuta di una virgola (0,4), rispetto al più 3,3 della media nazionale. Vero è che la fotografia del 2022 può essere stata particolarmente penalizzante per il momento Covid o post Covid, ma il discorso almeno in parte vale anche per il resto del territorio nazionale. Se poi consultiamo un’altra fonte, la classifica di “sportività” pubblicata ogni anno dal Sole 24 ore, la distanza con il resto del paese si fa abissale. Fra le prime 50 province, c’è solo Cagliari, undicesima. Le ultime sedici in classifica sono tutte del sud e delle isole.

E a questo punto è venuto il momento di tornare a quelle due paroline, autonomia differenziata, che hanno alimentato un durissimo scontro politico con tanto di corsa al referendum abrogativo. Lo sport non è fuori dal testo approvato lo scorso 26 giugno: all’articolo 3, comma 3, punto h, si cita l’«ordinamento sportivo» fra le materie in cui dovrà funzionare il «paracadute» dei cosiddetti Lep, i livelli effettivi di prestazione minimi che il governo dovrà indicare e far rispettare. L’espressione «ordinamento sportivo» spiega poco o nulla in un ambito, quello dello sport, dove la Costituzione prevede una «legislazione concorrente» fra Stato e Regioni, uno stato dell’arte per la verità rimasto molte volte sulla carta con tanto di ricorsi alle Corte Costituzionale dopo alcuni, recenti interventi legislativi parlamentari in tema di riforme dello sport contestati dalle stesse Regioni.

Il sud e la scuola

Tuttavia, è evidente che in questo contesto la parola «differenziato» andrebbe declinata nel modo opposto alla vulgata corrente. In altre parole: più mutualità, non meno. Cioè: differenziato sì, ma non a vantaggio delle regioni più ricche, piuttosto al contrario, in direzione dei territori con maggiore sofferenza dal punto di vista delle strutture. La connessione fra impianto funzionante e pratica sportiva, un domani magari pure di alto livello, è scontata. Come altrettanto chiaro – il dato figura nella ricerca Svimez-Uisp finanziata da Sport e Salute nel 2023 - che se al sud ci sono il 66 per cento dei bambini delle scuole primarie che non hanno una palestra a disposizione, la parola «differenziata» ha un valore eloquente che si mangia pure la parola «autonomia».

Finora lo Stato ha dato risposte contraddittorie a questa emergenza. Da una parte, nel PNRR si sono parzialmente privilegiati gli interventi al sud, il 52 per cento delle 400 palestre scolastiche che sono/saranno ristrutturate sono in Campania, Sicilia, Calabria e Basilicata. Dall’altra l’idea di una sottolineatura geografica di interventi mirati negli investimenti di “Sport e periferie” – èra Spadafora per intenderci – è stata superata verso un impegno in direzione di aree e periferie disagiate, senza però caratterizzare territorialmente questo orientamento.

Cosa può accadere

Di certo, Lep o non Lep, anche lo sport ha un problema: il rischio che un pezzo di paese sia sempre più in fuga dall’altro. Forse l’Olimpiade di Parigi, paradossalmente, nasconderà questo rischio grazie al promettente serbatoio di campioni del nostro sport e all’obiettiva efficienza del sistema Coni-federazioni almeno sul piano dell’attività di vertice. Ma se la forbice si allarga, o anzi se non si stringe, verranno tempi duri – peraltro combinati anche con il calo demografico – pure per il nostro medagliere.

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