Oltre all’ex premier, molti altri hanno investito in società di lobbying. Le porte girevoli anche in Europa. E l’Italia resta teatro senza regole
Il caso più recente riguarda Denis Verdini. Secondo la procura di Roma, l’ex parlamentare di Forza Italia ha gestito (insieme al figlio Tommaso) una società che offre consulenza a imprese private interessate a ottenere appalti pubblici.
I magistrati accusano lui e gli altri indagati di vari reati, tra cui la corruzione. In sostanza, sfruttando le conoscenze maturate negli oltre 10 anni trascorsi in parlamento, Verdini avrebbe permesso a una serie di aziende di ottenere appalti pubblici, o almeno di provare a farlo, in cambio di denaro. Indipendentemente dagli esiti giudiziari, il caso rimette al centro dell’attenzione un evergreen: politici che, lasciato il ruolo pubblico, vanno a lavorare per i privati.
È il fenomeno globale delle cosiddette revolving doors, le porte girevoli, inseribile nella macro categoria dei conflitti di interessi. In Italia ci sono gli ex parlamentari che oggi ricoprono incarichi in aziende private, quelli che hanno preferito diventare consulenti esterni e quelli che hanno costituito società di lobbying.
Quasi sempre tutto è fatto alla luce del sole, senza prestanomi o altri sotterfugi. Nulla di illegale. Non esiste, in Italia, una regolamentazione per il fenomeno.
In principio fu D’Alema
Questione preliminare. Perché, una volta terminato il mandato pubblico, un politico non dovrebbe avere diritto di lavorare nel settore privato?
The Good Lobby, organizzazione no profit che da quasi 10 anni si occupa di questi temi, ha scritto che tutto dipende da quale lavoro vuole andare a fare quel politico: «Se uno vuole aprirsi un ristorante, problemi non ce ne sono. Invece, se un ex ministro dell’Economia diventa presidente di una delle maggiori banche italiane, rischia di compromettere il mercato perché ha esaminato dossier riservati, ha scritto le regole del settore, conosce personalmente politici e dirigenti pubblici e può quindi favorire il proprio gruppo bancario».
Non è un esempio a caso. Pier Carlo Padoan è stato ministro dell’Economia dal 2014 al giugno del 2018 (governi Renzi e Gentiloni), deputato del Pd e membro della commissione Bilancio fino all’ottobre del 2020, quando Unicredit lo ha nominato presidente.
L’elenco degli ex politici italiani passati a lavorare nel privato è lungo, impossibile citarli tutti in un articolo, ma un posto di rilievo spetta certamente a Massimo D’Alema, tra i primi ad aver fatto pubblicamente il passaggio da politico a consulente. Come i colleghi europei più celebri (da Tony Blair a Gerhard Schroeder), l’ex premier italiano nel gennaio del 2019 ha costituito la DL&M advisor, che da statuto si occupa appunto di «consulenza imprenditoriale».
Ha offerto i suoi servizi a varie imprese, piccole e grandi. In un caso recente ha fatto da intermediario nella tentata vendita di prodotti da parte di Leonardo e Fincantieri (società di difesa controllate dallo Stato) al governo della Colombia; vicenda sulla quale sta ancora indagando la procura di Napoli.
Antonio Panzeri, parlamentare europeo del centrosinistra dal 2004 al 2019, tra i principali accusati dalla procura di Bruxelles per il cosiddetto Qatargate, è invece il caso più fresco di revolving doors, categoria “lobbisti occulti”, fattispecie molto diversa rispetto a D’Alema.
I magistrati belgi accusano a vario titolo Panzeri e altre persone di associazione a delinquere, corruzione e riciclaggio per aver incassato, quando era ancora parlamentare e dopo, tangenti da Qatar, Marocco e Mauritania in cambio della difesa degli interessi di questi paesi all’interno delle istituzioni europee.
Fino al Qatargate, infatti, il parlamento europeo permetteva a un deputato di terminare il mandato e iniziare immediatamente a lavorare come lobbista. L’unica modifica, approvata lo scorso aprile, prevede che gli ex deputati non possano lavorare come lobbisti in parlamento per i primi sei mesi dopo la fine del mandato.
Transparency International ha calcolato che nel 2017 c’erano almeno 51 ex deputati europei che lavoravano per società di lobbying registrate in Ue.
Far west Italia
Ha scelto questa strada anche Mario Mauro, ex ministro della Difesa, già eurodeputato di centrodestra e vicepresidente del parlamento Ue fino al 2013. Dal 2018 Mauro fa il lobbista attraverso l’italiana Meseuro Srl, società iscritta al registro della trasparenza Ue. Come abbiamo raccontato a dicembre, nel suo nuovo ruolo Mauro è stato anche coinvolto nella trattativa per aiutare due importanti armatori greci ad aggirare le sanzioni varate dall’Ue nei confronti della Russia.
Nei tentativi di business messi in piedi dalla coppia Eva Kaili-Francesco Giorgi (i principali indagati per il Qatargate) è stato coinvolto anche Paolo Alli, già presidente dell’Assemblea parlamentare della Nato, parlamentare italiano fino al 2018, prima del Popolo della Libertà e poi dell’Ncd di Angelino Alfano.
Nel 2019, un anno dopo la mancata rielezione, Alli ha iniziato la sua attività privata: insieme al figlio Giacomo ha fondato la Orbis Consulting, società italiana di consulenza per le imprese.
Il suo ex leader politico, Alfano, nella sua second life ha ottenuto risultati ancora più importanti. Uscito dal parlamento nel 2018, dopo aver rivestito tra i vari incarichi quello di ministro dell’Interno, della Giustizia e degli Esteri, meno di un anno dopo era già passato al privato.
Dal 2019 Alfano è presidente del consiglio di amministrazione del Gruppo San Donato, il colosso della sanità privata della famiglia Rotelli. A questo aggiunge la presidenza de La Villata, che raggruppa le proprietà immobiliari di Esselunga, e di Astm, la società della famiglia Gavio che si occupa di concessioni autostradali. Tutte aziende in rapporti con la pubblica amministrazione.
In quasi tutti i Paesi democratici ci sono norme per definire il passaggio da pubblico a privato, in diversi casi con un periodo di stacco previsto tra il termine del mandato parlamentare e l’inizio dell’attività di consulenza.
Negli Stati Uniti è di un anno, in Canada addirittura di cinque. The Good Lobby sostiene che in Italia bisognerebbe prevedere una pausa di almeno 24 mesi. Non eliminerebbe la questione del potenziale conflitto di interessi. Ma, almeno, potrebbe ridurne il rischio.
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