- I neodiplomati della classe di Lettere della Normale di Pisa hanno posto una domanda semplice: che senso ha essere i fortunati e gli eccellenti di una scuola ultrafinanziata destinata a pochi, mentre fuori ci sono le macerie di un’università pubblica che negli anni è stata lasciata senza le risorse necessarie a formare migliaia di studenti?
- Il rettore Luigi Ambrosio ha minimizzato: «È una falsa contrapposizione di tipo solo retorico: sarebbe corretto se a livello governativo il finanziamento delle Scuole superiori fosse stato usato come pretesto per il definanziamento del sistema universitario, ma non è questo il caso».
- Di fatto, però, una parte consistente dei fondi destinati alle Scuole superiori arriva da una quota cosiddetta “premiale” dei finanziamenti pubblici. Un “premio” voluto dalla riforma Gelmini che mira a una distribuzione delle risorse in base al “merito” e che è andato di pari passo con la riduzione dei fondi di base.
Hanno fatto quello che non ci si aspettava da loro: con un discorso di quindici minuti tenuto durante la cerimonia di consegna dei diplomi, i neodiplomati della classe di Lettere della Scuola Normale superiore di Pisa hanno attaccato con durezza il modello delle scuole dell’eccellenza.
Nel silenzio della sala azzurra della prestigiosa università, di fronte ai docenti che per anni li hanno formati, i ragazzi hanno posto una domanda semplice: che senso ha essere i fortunati e gli eccellenti di una scuola ultrafinanziata destinata a pochi, mentre fuori ci sono le macerie di un’università pubblica che negli anni è stata lasciata senza le risorse necessarie a formare migliaia di studenti? Che valore ha la retorica dell’eccellenza in questo contesto desolante?
Nel video del discorso diventato virale, gli studenti attribuiscono la responsabilità del progressivo ridimensionamento del sistema di istruzione pubblica «al processo di trasformazione dell’università in senso neoliberale, basato sull’idea dell’università azienda, in cui la divisione del lavoro scientifico è orientata a una produzione standardizzata, lo sfruttamento della forza lavoro si esprime in una precarizzazione sistemica e crescente e le disuguaglianze sono inasprite da un meccanismo concorrenziale che premia i più forti e punisce i più deboli».
A queste parole il rettore dell’università Luigi Ambrosio ha risposto minimizzando lo squilibrio: «È una falsa contrapposizione di tipo solo retorico: (...) non mi sembra corretto, lo sarebbe se a livello governativo il finanziamento delle Scuole superiori fosse stato usato come pretesto per il definanziamento del sistema universitario, ma non mi pare sia questo il caso».
Fondi in calo
Di fatto, però, una parte consistente dei fondi destinati alle Scuole superiori e ai poli di eccellenza arriva da una quota cosiddetta “premiale” dei finanziamenti pubblici, che dal 2010 ad oggi è passata dal 7 al 28 per cento (attualmente circa 2,4 miliardi di euro) delle risorse complessive. Un “premio” voluto dalla riforma Gelmini che mira a una distribuzione delle risorse in base al “merito” e che è andato di pari passo con la riduzione dei fondi di base, diminuiti dal 72,5 per cento del 2014 al 49 per cento del 2021 (ad oggi circa 4,1 miliardi, dati Flc-Cgil).
«Anche nel nuovo Pnrr le risorse sono poche, per quanto riguarda la ricerca la metà dei fondi sono vincolati a percorsi interni alle imprese, mentre alla ricerca di base, quella che negli anni ha prodotto le più importanti innovazioni, arrivano solo le briciole», sostiene Tito Russo, responsabile dei lavoratori precari del sindacato Flc Cgil.
Il merito solo al nord
Ma chi decide chi sono i meritevoli e qual è il rischio di questo meccanismo? La pagella delle università su cui si basa la divisione dei premi viene scritta ogni anno dall’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca), ente pubblico che fa capo al ministero dell’Istruzione. I criteri elaborati finiscono di fatto per premiare nella prevalenza dei casi le regioni del Nord: nell’ultimo rapporto Anvur le università del settentrione, infatti, riportano tutte un livello elevato mentre al Sud e nelle isole solo quattro sono definite «pienamente soddisfacenti».
«Il risultato di questa operazione matematica non tiene sostanzialmente conto dell’unico vero criterio di valutazione: il rapporto tra le performance, le risorse dell’università e il contesto territoriale ed economico in cui sono inserite: funziona un po’ come nelle classifiche del calcio, vincono i più forti col budget più alto, e questo fa sì che il loro budget diventi sempre maggiore, mentre i “meno forti” entrano in una spirale verso il basso da cui non hanno modo di uscire e che li porta ad avere sempre meno risorse», dice Francesco Sylos Labini, fisico e docente universitario fondatore della rete Roars (Return on Academic Research), voce critica del mondo della ricerca italiano.
«Questo meccanismo – continua – ripropone all’infinito lo status quo senza contribuire in alcun modo a colmare i divari e le disuguaglianze. Gli effetti si riflettono anche sugli studenti: si proteggono i bravissimi che arrivano all’università già bravissimi ma non si riesce ad elevare il livello medio generale».
Della stessa opinione anche Ismail El Gharrass, membro esecutivo nazionale di Link - coordinamento universitario: «Prima di parlare di quote premio si deve mettere mano al problema del rifinanziamento dell’istruzione universitaria generale e ridefinire i criteri di valutazione e distribuzione».
Il diritto allo studio
Adesso gli studenti della Normale che hanno fatto tanto discutere in questi giorni sono pronti a prendere contatto con tutte le altre realtà che negli anni si sono battute per il diritto allo studio: «Si è parlato molto delle tre ragazze che hanno tenuto il discorso durante la cerimonia dei diplomi, ma in realtà è stato un percorso condiviso dalla maggior degli allievi di Lettere del nostro anno», dichiarano Giovanni Tonolo e Alessandro Brizzi, anche loro co-autori del discorso. «Grazie a quel palco la nostra voce ha avuto un’eco più forte: vorremmo far notare, però, che questa critica viene mossa da anni da moltissime reti di cui fanno parte docenti, studenti, ricercatori e personale universitario. Ci hanno scritto in tantissimi e speriamo che questo sia solo il primo passo per la creazione di una base di discussione più ampia», continuano.
«Quando siamo arrivati in Normale ci hanno detto che per ognuno di noi almeno venti persone erano state escluse, questo dato per noi rappresenta un peso e crediamo che tutti abbiano il diritto di godere di un alto livello di istruzione in grado di sviluppare a pieno le diverse potenzialità di ciascuno. L’università dovrebbe colmare le differenze, non aggravarle».
Nessuna replica per adesso da parte della Normale di Pisa. Intanto, per singolare coincidenza, proprio pochi giorni fa è arrivata la conferma della chiamata alla cattedra di Letteratura Latina di Alessandro Schiesaro, già capo della segreteria tecnica per la ricerca del Miur ai tempi della riforma Gelmini e primo direttore della Scuola superiore di Studi avanzati della Sapienza.
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